Mi ripetevano che non ero italiano. Ero alto, biondiccio, avevo maniere garbate, non parlavo ad alta voce, non gettavo carta o rifiuti per terra, non mi ubriacavo di vino. Non potevo essere italiano!
Gli “italiani” erano piccoli di statura, neri di capelli, gridavano invece di parlare a bassa voce come si conviene, avevano l’impudenza di molestare per strada coi loro sguardi le ragazze tedesche e addirittura di lanciare intollerabili apprezzamenti sonori alle loro spalle. Anche per questo non era loro permesso entrare in discoteca (qualcuno continuava a provarci e persino a insistere, l’impudente). In birreria erano accettati, ma sedevano spesso nel tavolo più lontano, magari in quello d’angolo. Non so se li mettesse là la cameriera irritata per i soliti comportamenti da italiani, o se scegliessero da soli quel posto che il comune sentire assegnava loro.
Succedeva 45 anni fa, nell’agosto del 1969, a Donaueschingen (“Sorgenti del Danubio”), una ridente cittadina della Foresta Nera dove ero andato con una borsa di studio post-laurea a frequentare, per la prima volta, un corso estivo di tedesco nel Goethe Institut del luogo.
Avevo provato a dire ai miei interlocutori tedeschi che molti altri italiani avevano la mia stessa corporatura, il mio aspetto fisico, ma avevo subito capito che questa mia insistenza dava fastidio.
Lo sapevano benissimo da soli, incontravano in continuazione italiani durante le loro vacanze estive; ma quelli se ne stavano a casa loro in Italia e non andavano confusi con i veri “Italiener” che invece infestavano le borgate tedesche con la loro presenza ingombrante e talora insopportabile.
È vero, erano stati chiamati e utilizzati per i lavori più duri e marginali, quei lavori che la maggior parte dei tedeschi evitava ormai quasi con sdegno, venivano prevalentemente dall’Italia meridionale, ma questo non cambiava i termini del problema. Del resto, bastava guardarli tutte le sere o la domenica (quando avevano tempo per sé), chiassosi e scomposti come sempre, nell’atrio della stazione ferroviaria o addirittura seduti sugli scalini esterni.
Italiener! Sempre rigorosamente tra di loro, sempre a parlare con quella loro lingua quasi insopportabile quando viene usata non per cantare e non è accompagnata da buona musica, sempre incapaci di spiaccicare una parola in tedesco e men che meno una frase compiuta e sensata.
E non valeva per loro l’adagio: “deutsche Sprache – schwäre Sprache” (“tedesco – lingua difficile”). Me lo sentivo ripetere da tutti, ma proprio da tutti, dalla bibliotecaria al portalettere, col fare paterno (ma anche compiaciuto) di chi voleva incoraggiare i miei sforzi di imparare il tedesco. Ma già, io non ero italiano!
La verità è che i lavoratori italiani, gli “italiani”, sono degli incivili da tenere a debita distanza, comunque ad una distanza sufficiente per essere sicuri di non doversi mischiare con loro. Sono così volgari e diversi da noi tedeschi! Anzi, se devo dirla tutta, mentre li guardo, godo proprio nel sentirmi diverso da loro e questo senso di diversità (stavo per dire superiorità) mi fa stare proprio bene, forse mi aiuta persino a capire chi sono veramente. Non ci voglio neanche riflettere sopra più di tanto; eppure, se ci penso bene, devo dire che questa soda diversità mi fa sentire appagato, sicuro e protetto.
E già! Allora, nel piccolo centro della Foresta Nera questo schema identitario scattava nei confronti degli emigranti italiani, ora invece scatta in molti italiani di fronte agli stranieri e ai clandestini che ci hanno “invaso”: avere ben chiaro chi è diverso da noi, chi è “altro da noi”, dà rassicuranti certezze, compiacimento e adrenalina. E questa “diversità” permette oggi e permetteva allora di chiarire le cose con immediatezza, senza neanche bisogno di dirle e nemmeno pensarle.
Ecco chi siamo noi (sempre che tu voglia stare con “noi”), mi si diceva senza giri di parole allora nella Foresta Nera: siamo diversi da “loro”. Questo, in fin dei conti significava la frase: “tu non sei italiano”. Ma, quel che è peggio, per me, era il fatto che io non replicassi più di tanto; anzi, il fatto che sotto sotto mi facesse piacere, molto piacere.
Sono tornato più volte in quella cittadina che amo ancora; comunque, per parecchi anni le mie estati sono state consacrate a studiare tedesco in piccoli centri, appositamente cercati per non parlare italiano con italiani (e questo non nella logica della separazione tra “noi” e “loro”). Uno di quei docenti che non si dimenticano mai, mi aveva infatti insegnato a leggere Kant, Hegel e altri filosofi tedeschi dai quali avevo imparato a pensare e a cercare di capire, ma mi aveva parimenti inculcato la convinzione che le loro opere andavano lette in tedesco.
In piccoli centri come Donaueschingen, che non brulicava certo di emigranti italiani, 45 anni fa ancora si respirava e si percepiva con immediatezza tutta la distanza tra “noi” e “loro”, tra “tedeschi” e “italiani”. Una distanza che, invece, nelle prestigiose e piccole città universitarie tedesche e nei grandi centri urbani viveva solo in residuali luoghi comuni, difficili certo da estirpare, ma usati con bonarietà o con molta autoironia, e comunque non dai più giovani.
Tornando in Germania con continuità sino a tutti gli anni Ottanta, ho avuto la fortuna (lo capisco solo ora) di vivere in presa diretta un significativo cambiamento.
Dopo gli emigranti italiani erano arrivati i turchi, con la loro cucina tanto diversa e dagli odori invadenti, con i loro riti religiosi e culturali veramente differenti; e poi erano arrivati gli slavi insieme con altre etnie. E così, in breve tempo, i “Gastarbeiter” (“lavoratori ospiti”) italiani erano stati non solo pienamente accettati, ma qualche volta persino rimpianti, forse perché ne arrivavano sempre meno, forse per un rassicurante senso di vicinanza culturale, forse perché avevano imparato la lingua, le usanze ed erano così entrati nel novero dei “noi”. O, più probabilmente, perché la società tedesca era cambiata, anche nelle fasce sociali bisognose di certezze e nelle località più appartate.
Era cambiato tutto nello spazio di pochi anni, almeno per me. Non avevo più bisogno di dire timidamente che “anch’io ero italiano”. Lo ero e basta! e potevo lasciare trasparire senza timore persino l’orgoglio di esserlo, senza dover provare disagio, o l’ansia di chi si sente sotto esame, o addirittura l’angoscia di poter essere rifiutato. Ero cambiato anch’io, ovviamente. Ero diventato più sicuro e percepivo quindi le cose con maggiore equilibrio.
In quell’agosto del 1969 avevo affittato una camera in una casa a due passi dalla stazione ferroviaria di Donaueschingen; una casa che ricordo ancora con grande rimpianto, forse perché rimpiango quegli anni di giovinezza.
Così, quando rientravo a casa (ovviamente a piedi visto che le distanze erano minime) cercavo accuratamente di non passare davanti alla stazione. E se proprio dovevo farlo, mi trovavo, ogni volta, a provare un senso di vergogna per quegli “italiani” chiassosi e invadenti che gridavano, fumavano, bevevano e che, forse, cercavano disperatamente di non soffrire troppo il loro isolamento, la loro lontananza da affetti famigliari.
Mi è tornato in mente in questi giorni di dura aggressiva campagna elettorale, carichi di slogan adrenalinici, dispensatori di facili identità e di fierezza di “essere diversi”.
E a oltre quarant’anni di distanza, mi vergogno di essermi allora vergognato.
*Enzo Baldini, Professore di Scienze Politiche dell'Università di Torino, insegna "Storia del pensiero politico" e anche "Laboratorio Internet per la ricerca storica". Ha lavorato su internet fin dagli albori della rete, è stato tra i creatori della Biblioteca italiana telematica www.bibliotecaitaliana.it e poi del consorzio interuniversitario ICoN-Italian culture on the Net:www.italicon.it, del quale continua ad occuparsi enzo.baldini@unito.it
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