Chi se la passa meglio un mafioso o un antimafioso professionista? Chi incassava di più la sorella di Matteo Messina Denaro o Rosy Canale, l’imprenditrice calabrese simbolo della lotta alle cosche arrestata perchè avrebbe speso in borse Vuitton i soldi dei progetti di legalità?
Leggendo i giornali si dirà che la sorella del superlatitante controlla un impero economico da centinaia di milioni di euro, e allora non si capisce perchè aveva chiesto 70 mila euro ad una conoscente incontrata ad un funerale. E perchè, dopo questa estorsione fallita, in fretta e furia stava cercando 8000 mila euro da dare al fratello, in eterna fuga da quasi un quarto di secolo. «Lui deve volare – diceva riferendosi al superboss – e senza soldi invece non può volare».
Finalmente anche per loro i tempi sono diventati grami, sequestri e confische a raffiche hanno ridotto sul lastrico i mafiosi. Ma sono loro i veri mafiosi? L’informazione non ci aiuta a capire. Oggi più che mai è necessario intendersi sul termine mafia.
I mafiosi erano quelli che sparavano al capitano Basile e presi con le pistole in mano ancora calde dissero che erano «andati ad un appuntamento galante». Ed i giudici li assolsero. Erano i compomenti di un’agenzia di servizi criminali che ammazzavano per conto di mandanti mai individuati, presidenti della Regione, procuratori della repubblica, imprenditori, magistrati, giornalisti e l’hanno fatta franca per trent’anni o giù di lì.
Fin quando è caduto il muro di Berlino e non serviva più puntellare il traballante assetto di potere. Così persero l’impunità e finirono in gabbia uno dopo l’altro. Adesso di mafiosi di quel genere, con quelle impunità, con quelle aderenze con il potere, non ne esistono più da un pezzo. Resta solo Messina Denaro, che qualche amicizia con la politica ed i servizi l’ha conservata. Non a caso a lui, dice Giovanni Brusca, sarebbe finito il famoso archivio conservato nella casa di Totò Riina che i Ros dimenticarono di perquisire.
Quel che resta dell’organizzazione è davvero il fondo del barile. Boss falegnami, manovali del crimine, nominati capimandamento come ci dicono recenti indagini di polizia su personaggi sempre più mediocri. Su scenari sempre meno credibili.
Dunque se questa specie di mafia piange, l’antimafia, il fronte della legalità invece ride. I soldi abbondano. Nell’ultima finanziaria regionale in Sicilia erano inseriti i nomi di un centinaio di associazioni che hanno ricevuto contributi per progetti di legalità. Anche gli ex volontari di Addiopizzo hanno trovato l’America a Palermo. Iniziarono qualche anno fa ad applaudire i poliziotti sotto le finestre della questura per le catture di latitanti di mezza tacca. Adesso sono finiti sul libro paga del ministero dell’Interno, beneficiari di una vagonata di denaro, per un paio di milioni di euro, sempre per progetti di legalità. La legalità è diventata un business, uno dei pochi che funziona in una terra strangolata dalla disocuppazione salita al 50 per cento.
Cosa si fa con tutti questi soldi pubblici, a cosa servono? Mistero. Un paio d’anni fa domandai ad un investigatore se un solo imprenditore avesse denunciato il pizzo di sua spontanea volontà. Mi rispose no. Qualcuno parla solo quando le indagini hanno già incastrato gli estorsori.
E allora perchè tutto questo denaro per progetti e associazioni? Perchè così vuole la mafia vera, quella che non ha perso l’impunità, che è sempre avvinghiata al potere. Che è il potere. La mafia degli affari, dei servizi deviati, dei politici che hanno lucrato con tutte le possibili trattative e vivono grazie ad i ricatti. Più soldi vanno a queste associazioni a questi antimafiosi professionisti, più loro possono mettersi medaglie sul petto. E continuare a brigare. La mafia che ha il volto delle istituzioni. E sostiene di fare antimafia.