Il calvario di Vittorio Pisani, ex capo della squadra mobile di Napoli, comincia esattamente due anni fa: quando un collaboratore di giustizia, Salvatore Lo Russo, lo accusa di “coprire” le attività di riciclaggio di alcuni proprietari di ristorante, di lasciar correre perché amico loro, e addirittura di aver rivelato il contenuto di un’inchiesta. Per la settima sezione del tribunale di Napoli non c’è alcun riscontro alle accuse del collaboratore, e ha assolto il poliziotto, “perché il fatto non sussiste”.
Pisani, 46 anni, calabrese, è quello che si dice “un duro”. Uno che non si scompone e non si arrende. Uno che colleziona modellini di automobili della polizia, e conserva gelosamente una locandina del 1929, il tariffario di un bordello: «Un quarto d’ora, tre lire virgola dieci. Sconto bassa truppa».
Ha 23 anni, quando arriva per la prima volta a Napoli. Da allora non si contano i boss e i latitanti che ha spedito in galera. L’ultimo catturato è quel Michele Zagaria, capo del clan dei casalesi, sorpreso nell’abitazione di un complice a Casapesenna. Lo sorprendono all’interno di un bunker sotterraneo.
Fanno scalpore certe sue dichiarazioni su Roberto Saviano, l’autore di “Gomorra”; un libro che a suo giudizio “ha avuto un peso mediatico eccessivo rispetto al valore che ha per noi addetti ai lavori”. Poi rettifica il tiro: “Non ce l’ho con Saviano, ma col savianismo. Ricordate la riga arcinota di Brecht nella Vita di Galileo? “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”.
Le minacce di morte a Saviano erano però qualcosa di reale. E lui: “Io faccio anticamorra dal 1991. Ho arrestato centinaia di delinquenti. Beh, giro per la città con mia moglie e con i miei figli, senza scorta. Resto perplesso quando vedo scortate persone che hanno fatto meno di tantissimi poliziotti, carabinieri, magistrati e giornalisti che combattono la camorra da anni. Non ho mai chiesto una scorta. Anche perché non sono mai stato minacciato. Anzi, quando vado a testimoniare gli imputati mi salutano dalle celle”.
Avete dunque capito il tipo: ruvido, un po’ guascone, dice quello che pensa, anche se quello che pensa può risultare sgradito e sgradevole. “Siamo poco incisivi”, dice, “anche perché il costo del delitto, e cioè la possibilità di finire in carcere per molto tempo, è ridicolo rispetto alla facilità con cui si crea profitto. Le politiche criminali dovrebbero indirizzarsi verso la rottura del rapporto tra offerta e domanda di stupefacenti. A Napoli i clan si arricchiscono con la droga. Il reato di estorsione, il pizzo, non conviene più, e la prostituzione è gestita soprattutto dagli extracomunitari. Una volta un capo clan mi disse: Io ai poveri del quartiere do la droga da spacciare. Lo Stato che cosa gli dà?”.
Quando gli fanno osservare un’eccessiva vicinanza di alcuni agenti ai confidenti dei clan, replica secco: “falsi moralismi”. Quanto agli strumenti investigativi, “il pentito andrebbe usato solo quando è davvero indispensabile. Abbiamo strumenti, come le intercettazioni, che ci permettono di raccogliere abbastanza prove”. Poi sembra di ascoltare Maigret, il protagonista dei mille romanzi di Georges Simenon, che pensa e guarda, osserva e tira le somme: “Ci sono segnali del corpo che ti dicono se una persona è nervosa. E poi serve esperienza. La cosa più importante è non interrogare avendo già un giudizio sulla sincerità dell’interrogato. Non si devono mai portare avanti indagini a tesi, tralasciando alcuni filoni investigativi perché non coincidono con la propria teoria”.
Con la infamante accusa di favoreggiamento e falso, ci ha dovuto convivere per ben due anni. Non è stato arrestato, d’accordo, ma ugualmente un incubo. E’ stato sollevato – certo: cautelativamente – dall’incarico, a Napoli non poteva più mettere piede, gli era stato decretato il divieto di dimora, ed è stato trasferito a Roma, all’ufficio immigrazione. Come risarcire tutto ciò, quel pesante sospetto che gli è gravato fino a quando “in nome del popolo italiano” si è stabilito che “il fatto non sussiste”? E si può, inoltre immaginare che per Pisani si sia avuto, per quello che è stato e ha fatto, un occhio di riguardo; ma i tanti Pisani che non sono Pisani, e che ci sono? Nelle carceri italiane su circa 65mila detenuti, 45 mila sono in attesa di processo, e una buona metà verranno assolti.
C’è un rimedio alla situazione che si è venuta a creare? “Un rimedio paradossale quando si vuole”, disse una volta Leonardo Sciascia, “sarebbe quello di far fare a ogni magistrato, una volte superate le prove d’esame e vinto il concorso, almeno tre giorni in carcere, e preferibilmente in carceri famigerate come l’Ucciardone o Poggioreale”. Ecco. E questo non è un paradosso.