Il pm Nino Di Matteo è un galantuomo. Un vero investigatore. Rappresenta uno dei pochissimi motivi per cui dirsi all'estero ancora orgogliosi di essere italiani. Lo conosco appena, nonostante frequenti il palazzo di giustizia di Palermo da troppo tempo, un cenno di saluto ogni tanto, un sorriso, una stretta di mano e mai una notizia, mannaggia a lui.

Toto’ Riina, capo di tutti i capi?
Detto questo, la storia della minaccia di Totò Riina che lo vuole morto e urla in cella, non mi convince per nulla. Non perché Riina non abbia buoni motivi per volerlo morto, ci mancherebbe. Nessuno in questi anni ha fatto tanto contro la mafia, come Di Matteo. Andando subito al dunque, il problema è che Di Matteo ha investigato e lottato contro la mafia vera, non quella dei pastori analfabeti di Corleone, che come diceva un collega recentemente scomparso, confondevano il cazzo con la marcia reale. Scusate la citazione.
Di Matteo ha ficcato il naso in quel fango puzzolente fatto di servizi deviati, politici mascalzoni, imprenditori pronti a tutto, insomma la classe dirigente che da sempre comanda in Italia. Il processo Mori, l'inchiesta sulla trattativa, la seconda e segretissima inchiesta sulla trattativa, insomma possiamo dire che solo incidentalmente Di Matteo si è occupato di Riina e compagni, comprimari, sanguinari, ma comunque comprimari e al massimo esecutori, in questo "grande gioco" . E dunque non mi convince affatto l'esplosione di odio improvvisa di Riina, le sue minacce captate a sua insaputa da un agente di custodia particolarmente zelante e attento.
Nell'ambiente carcerario, secondo una consolidata tradizione riscontrabile in quasi tutte le inchieste sulle tante stragi italiane, sono stati costruiti tutti i possibili depistaggi che hanno privato l'Italia di verità storiche e politiche inconfessabili che scoperte avrebbero probabilmente cambiato (in meglio) il volto alla nostra democrazia.
Per questo ho molti dubbi riguardo la ricostruzione pubblicata da tutti i giornali esattamente allo stesso modo, senza un margine di dubbio, senza un analisi che si discostasse da una certa ortodossia antimafia, la nemica dell'antimafia vera che fa Di Matteo. Riina è seppellito dagli ergastoli, sa benissimo che non uscira' vivo dalla cella, e sa benissimo cosa pensano di lui gli altri mafiosi. Che si e' fatto fregare dallo Stato, dai politici che lo hanno usato e gettato, causando la sua sfortuna e quelli di altri migliaia di mafiosi. Ad avercela con Di Matteo sono altri personaggi, rimasti al potere, che anzi hanno aumentato la loro forza grazie ad accordi e trattative oscene. E adesso temono di essere smascherati. Per cui su questo racconto dell'agente di custodia bisognava porsi qualche tonnellata di dubbi in più ed evitare il solito stile velinaro. Così non è stato e c'è un motivo di fondo, oltre alla consueta approssimazione e superficialità che contraddistingue la nostra informazione.
Le minacce sono un tema scivoloso, soprattutto nell'antimafia. Qualcuno, tanti, soprattutto politici ma anche giornalisti da quattro soldi e trenta denari, imprenditori, talvolta magistrati, ci hanno costruito le loro cialtrone fortune. Prima o poi tornero' su questa vergogna italiana. E d'altronde lo stesso Di Matteo che indaga sulla mafia vera, si è occupato di una strana sigla, un gruppuscolo chiamato Falange Armata, specializzato in minacce e rivendicazioni che compare in molti delitti e attentati della terribile stagione stragista del 1992-93. Dietro c'erano i servizi che non seppero evitare quelle stragi e poi depistarono le indagini. E si è occupato anche di un giornalista vero che si chiamava Mario Francese. Non lo ha mai minacciato nessuno. Andò via una sera dalla redazione ed ai colleghi con un sorriso stanco disse la solita frase: "Amici del Colorado, vi saluto e me ne vado". Sotto casa lo aspettava un killer.