Lia Pipitone non è morta per mano di due balordi che tentavano di portare a termine una rapina in un pomeriggio di settembre del 1983, all’interno di un negozio di sanitari, nella borgata Arenella di Palermo, non fu un caso, né un incidente, ma questa ragazza di venticinque anni, già moglie e madre, venne presto dimenticata, il delitto era l’85° di quell’anno in Sicilia, indagini vere e proprie non ve ne furono, non si doveva indagare, Lia non doveva essere riconosciuta dallo stato come vittima di mafia, le competeva l’oblio, morire ogni giorno nello strazio di suo figlio che ha conosciuto il deserto di un’infanzia senza madre.
Alessio Cordaro è il figlio di Lia Pipitone, cresciuto con suo padre Gero, aveva quattro anni quando le uccisero la mamma, gli venne raccontata una pietosa buglia, un incidente stradale, dopo qualche anno suo padre gli mostrò un raccoglitore in cui conservava gli articoli dell’epoca che raccontavano dell’accaduto, così rivide il volto di sua madre, che il tempo non aveva trattenuto nella memoria del fanciullo, apprese che il fatto venne presentato come una sfortunata casualità, la vittima si trovava nel posto sbagliato, nel momento sbagliato, ma le dinamiche nelle quali si sviluppò quella rapina lasciavano parecchi dubbi.
Era nata, Lia, da un padre boss, Antonino Pipitone, cognato di Tommaso Cannella, consigliori di Bernardo Provenzano, un padre che Alessio faticava a chiamare nonno, che vedeva poco o nulla quando era piccino, le cose cambiarono dopo i vari processi che videro Pipitone imputato, a seguito delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Alessio non ebbe mai il coraggio di interrogare suo nonno in merito alla vicenda, in cuor suo percepiva che qualcosa egli sapesse, ma era consapevole che non avrebbe mai ammesso di essere il mandante dell’omicidio di sua figlia, e se avesse dichiarato di esserne completamente all’oscuro, Alessio non ci avrebbe creduto.
Alla ricostruzione di questa amarissima pagina di sangue è stato dedicato un libro, scritto a quattro mani dal figlio di Lia Pipitone e dal giornalista palermitano di La Repubblica Salvo Palazzolo, il cui titolo Se muoio sopravvivimi, evoca una poesia di Pablo Neruda, molto amata dalla giovane vittima. Libro intenso e commovente che ha avuto, tra l’altro, il grande merito di contribuire, unitamente alle rivelazioni del pentito Angelo Fontana, a far riaprire alla Procura di Palermo l’indagine che potrà, si spera, fare piena luce sull’omicidio.
Un anno e mezzo di ricerche, condotte dai due autori, hanno dato modo al giovane di conoscere aspetti della vita di sua madre da lui ignorati, ma anche aspetti bui della città di Palermo e non è stato semplice per Alessio Cordaro rapportarsi con questa realtà nella quale continua a vivere ancora oggi, abitando nello stesso quartiere in cui è avvenuto il fatto. I quartieri di cui si parla nel libro sono i quartieri da cui partivano gli squadroni della morte del clan dei corleonesi, quartieri limitrofi a quello dove vive Alessio, Acquasanta, Vergine Maria e Arenella, adiacenti uno all’altro.
Far conoscere la storia di Lia Pipitone per suo figlio è difenderne la memoria, riportare alla luce chi sono stati realmente gli esecutori materiali, chi il mandante, è come togliere una parte di Palermo, della Sicilia, alla criminalità e ridarla ai cittadini per bene.
Fu lo spirito indipendente e battagliero della ragazza a suscitare le ire del padre-padrone, in realtà Lia non pretendeva nulla di straordinario, uscire con gli amici, andare a qualche festa, vestirsi con i jeans e una t-shirt, scegliere la scuola da frequentare, il liceo artistico, malvisto dal genitore, tutto era trasgressivo in quel contesto di assurdità reazionarie e misogine, le donne percepite persone a metà con zero diritti, non è difficile immaginare come suo padre dovette interpretare la scelta di Lia di sposarsi, dopo essere fuggita con un compagno di scuola, all’età di diciannove anni e averne concepito un figlio! Poco prima di essere uccisa Lia venne affrontata da Pipitone a cui erano giunte voci di una relazione extraconiugale della figlia, alla confessione di lei di volersi separare seguirono insulti e sputi; in realtà la ragazza aveva un grande rapporto d’amicizia con un cugino di secondo grado, Simone Di Trapani, ucciso da Cosa Nostra due giorni dopo l’assassinio di Lia, inscenando un finto suicidio, costretto a volare dal balcone di casa sua, dopo aver lasciato un messaggio scritto in cui spiegava il gesto con le sofferenze per l’amore perduto. Quello che sconcerta e addolora è l’attualità di questa storia e il fatto che a morire non è un eroe dell’antimafia, è una persona semplicissima, non un magistrato o un’attivista, è una donna che muore perché il padre, un padrino, ha deciso che quella ragazza non deve pensare con la sua testa, non ha diritto di vestirsi come vuole, una ragazza che faceva delle cose semplici, voleva organizzare delle feste, ma in quel quartiere non si poteva, perché quel quartiere era la zona franca da dove i killers di Riina uscivano per le azioni di morte, per andare ad ammazzaretutti gli uomini delle istituzioni che davano fastidio al capo assoluto di Cosa Nostra, allora non si poteva organizzare una festa, non si poteva avere un amico del cuore perché quella era una cosa scandalosa. Dei proiettili che uccisero Lia soltanto uno è stato ritrovato, gli investigatori sul campo fanno finta di non ricordarsi che il padre della ragazza è un boss, la perfezione del delitto a Palermo, buttare fango sulla vittima per cominciare a dire che quella ragazza o è morta per mano di un balordo o forse chissà cosa aveva fatto, allora il depistaggio, le prove scomparse, il fango è il metodo del delitto a Palermo che ritorna in tanti altri casi eccellenti. Quando parliamo di Agenda Rossa che non c’è più ha ricordato, Salvo Palazzolo, parliamo di un simbolo, di tante cose che non ci sono, parliamo di uno stesso metodo che è stato adottato per i magistrati, per tutti gli uomini che in maniera forte hanno dato un contributo alla città, perché Riina non si accontentava, il lavoro sporco del sicario è soltanto un segmento, il lavoro importante, vero, è quello che c’è dopo, di andare a cancellare l’ultima verità di chi viene ucciso perché è quella verità che da fastidio e può dare anche più fastidio del morto. Quello che la mafia uccide, quando uccide gente come Lia, è un programma di idee, straordinario, un movimento di idee di cambiamento e di riscatto, in un’epoca in cui non c’era internet, era però viva in quegli anni una rete prodigiosa di idee, pur se gli uomini delle istituzioni che per tali idee si battevano erano soli nei palazzi in cui operavano. Maurizio De Lucia, magistrato della Direzione Nazionale Antimafia, ricordando che la vera lotta alla mafia prese avvio con il lavoro di Giovanni Falcone, ha ribadito più volte l’amara verità che tutti gli uccisi, sono stati uccisi perché erano soli, si muore perché si è soli, in qualche modo anche Lia Pipitone morì perché era sola, probabilmente molto più sola anche degli uomini dello stato. Giovanni Falcone voleva mettere in rete, dal punto di vista giuridico, il pool antimafia e creare la Direzione Distrettuale Antimafia e la Direzione Nazionale Antimafia, non ci è arrivato perché la mafia ci è arrivata prima a capire quale pericolo fosse questo per la propria sopravvivenza. Alessio Cordaro dice che è facile immaginare quanto gli sia costato scrivere, raccontare, indagare, ma la voglia di dare giustizia a sua madre ha prevalso.
Alessio Cordaro
Alessio, la Palermo di oggi è molto diversa da quella di trenta anni fa?
“Spero proprio di si, mi sembra di constatare che le realtà siano anni luce lontane, però purtroppo la situazione, la vicissitudine di cui è stata vittima mia madre continua a coesistere con la Palermo dei cittadini per bene, probabilmente è cambiato il modo di agire, di comportarsi comportarsi nei confronti anche della città, però la realtà della delinquenza, della criminalità organizzata continua evidentemente a padroneggiare ancora nella nostra vita.
Ha mai pensato di lasciare la Sicilia?
“Si, ma non per questo motivo, in realtà in passato io ho ambìto, per motivi di studio e non solo, ad altre città che mi offrissero delle possibilità che la Sicilia purtroppo non mi offriva, ma non per questa piaga che ci affligge”.
Questo non è stato un motivo sufficiente per andare via?
“È stato un motivo per rimanere a combattere”.
È sempre rimasto a Palermo in questi anni?
“Io mi sono diviso in realtà, sono stato degli anni nella provincia di Agrigento, degli anni a Palermo e degli anni poi a Catania”.
L’esperienza di questo libro, riportare per iscritto questo dolore, ha avuto per lei, in qualche modo, un effetto terapeutico?
“No, ad oggi no, spero che possa essere un effetto prossimo questo, perché ad oggi ripescare questi ricordi, rivangare nel passato di mia mamma, sinceramente è stato più doloroso che terapeutico, però, laddove trovassi la verità per cui lei non c’è più, parlarne allora probabilmente non dico che potrebbe cancellare il dolore, il segno rimarrà indelebile per tutta la vita, però spero possa andare a mitigarlo”.
Dal processo si aspetta una giustizia vera?
“È il motivo per cui sto lottando, spero di si, è l’ambizione più grande in cui confido”.
Vuol dire che le premesse ci sono , la magistratura di oggi andrà a fondo?
“Ad oggi già il fatto che il libro ha consentito di riaprire le indagini è un segnale lampante della volontà, sia dal punto di vista della magistratura, che della città, di venire a capo della verità e di avere giustizia”.
Oggi la mafia palermitana è in crisi, mostra cedimenti?
“Non ci sono omicidi eclatanti, sembra agire più nel sommerso. Operano in maniera diversa evidentemente, ma la realtà sussiste, è un potere attualmente riconosciuto e presente in Sicilia e condizionante a vari livelli, questo si”.
Nei fatti è cambiata solo magari la consapevolezza della gente che è maggiore?
“Voglio sperarlo perché in concreto io vivo in una realtà che è un’utopia, nel senso che non riesco a capire perché questa battaglia tra stato e criminalità continui, ormai siamo rassegnati all’idea che è una realtà con la quale dobbiamo convivere, una battaglia la vinciamo noi, una la vincono loro, quella dopo noi… Non si ha quella forza per intraprendere una guerra che preveda una fine, qualunque battaglia generalmente ha un inizio, ma si continua a combattere in funzione della fine, questa, invece, sembra che siamo rassegnati a considerarla talmente radicata nella nostra società, come fosse qualcosa che non ci sta bene, ma dobbiamo conviverci”.