Il treno era ornato di fiori foglie e bandiere, ma il pensier era serio pareva di aver la morte poco distante”: queste le sofferte parole scritte da un giovane trentino che si accingeva a partire per una guerra rivelatasi una vera ecatombe, a cui la città di Trento donò un tributo, in termini di perdite di vite umane, altissimo: undicimilaquattrocento soldati perirono sui campi di battaglia. Nel 1914 i trentini erano cittadini dell’Impero austro-ungarico, per esso combatterono sui fronti della Galizia, ora territorio in parte polacco, in parte ucraino, dei Carpazi, della Romania, della Volinia e dell’Italia, mentre una minoranza seguì volontariamente l’esercito italiano, a difesa dell’italianità del Trentino.
Poco meno di tre anni orsono, per due settimane, un grande Memoriale a forma di anello sospeso, su cui erano scritti i nomi dei caduti, ha ricordato, nel Palazzo della Regione di Trento, per la prima volta tutti insieme, i soldati trentini caduti nella Prima Guerra Mondiale, una commemorazione che oggi, alla luce del Nobel per la Pace conferito all’Unione Europea, assume un significato simbolico ancora più alto, nel ricordo tragico di ciò che significò, invece, un’Europa divisa in Stati tra loro contrapposti, uniti solo dal tragico disegno di morte che ogni conflitto reca in sé “E’ chiaro che noi abbiamo avuto, afferma Franco Panizza, Assessore alla Cultura, ai Rapporti Europei e alla Cooperazione
della Provincia Autonoma di Trento, nel momento in cui c’è stato il passaggio allo Stato italiano, un periodo di oscurantismo di tutta l’epoca precedente perché l’Italia aveva bisogno di italianizzare la nostra Regione, imponendo l’italiano, di conseguenza tutta la storia anteriore è stata, in qualche maniera messa in disparte. Non è difficile rendersene conto, sostiene Panizza, basta leggere i monumenti ai caduti che sono stati realizzati dopo, molti di loro riferiscono di soldati della Prima Guerra Mondiale come morti per l’oppressore, per il nemico, quindi questa memoria, in qualche modo, è stata negata, a questo si riferisce il titolo di un libro edito su questo tema: “Il Popolo Scomparso” perché ne è scomparsa la memoria. Qui a Trento, dice, in via Belenzani, hanno scoperto una targa per ricordare i soldati di questa città caduti per l’Impero austro-ungarico, la targa ufficiale che c’era menzionava solo quelli italiani, ma la guerra devastò la vita di queste comunità.
La storia dei trentini, ricorda lo studioso Giovanni Terranova, che tante energie ha dedicato a questo tema, è una storia di profughi strappati alla loro terra, alle loro case all’inizio della guerra, di civili mandati in Boemia, in Austria, la storia di quindicimila trentini caduti in Russia, ma anche in Serbia ne sono stati mandati a migliaia. Una serie di eventi denominati “Progetto Grande Guerra”, a cui hanno aderito, oltre all’Assessorato alla Cultura menzionato, altri soggetti pubblici e privati, riconosce un ruolo determinante alla Soprintendenza per i beni architettonici e al Museo Storico italiano della Guerra di Rovereto il ruolo di referente scientifico delle celebrazioni che si terranno nel 2014 per commemorare il centenario dell’entrata in guerra del Trentino, un modo per dare voce e spazio a tutti i Comuni coinvolti, ad ogni Valle, cercando di recuperare i segni lasciati dalla guerra.
Era il 31 luglio del 1914 quando in tutti i territori dell’Impero austro-ungarico veniva diramato l’ordine di mobilitazione dell’esercito e della leva di massa, il proclama dell’imperatore, affisso per le strade, si rivolgeva “Ai miei popoli”, ma fu davvero un martirio, l’esempio emblematico di come una guerra locale, lontana, per ragioni politiche e diplomatiche possa divenire mondiale. Due settimane fa, racconta Panizza, abbiamo avuto un incontro con tre studiosi austriaci che sono stati qui, con i quali abbiamo provato a ricostruire il tutto, la difficoltà sorge perché gli archivi di Vienna sono ancora secretati in quanto non sono trascorsi cento anni, ma in qualche modo forse li possiamo liberare prima.
La Prima Guerra Mondiale è stata per il Trentino un evento veramente deflagrante, il più importante, insieme al Concilio di Trento, della sua storia perché c’è stata un’azione di fortificazione immane, sono partiti oltre sessantamila uomini, è stata la linea del fronte da cui sono partite anche le operazioni per l’armistizio, con tutti i profughi del fronte in giro per l’Europa, c’è stato il cambio di nazionalità che non è proprio semplice, passare dallo Stato asburgico, tutto preciso, ad uno Stato borbonico, come era nei fatti ancora quello italiano, ha posto problemi di non lieve entità alla gente di questa Regione. Sono morti tutti giovani, come dire, la forza vitale di una comunità, e quando i profughi sono tornati era tutto raso al suolo, vi furono problemi enormi, la Corona valutata un quinto, il cambio di amministrazione, oltre al fatto che il sentirsi, in qualche modo, occupati e quindi comunità da redimere non è assolutamente semplice, per non parlare dell’Alto Adige dove la situazione fu ancora più difficile, riflette Franco Panizza, che sa di trovarsi di fronte ad una documentazione infinita, mai completata, ma non è importante sapere per forza tutto di tutti per recuperare la memoria, tutto ciò che c’era da trovare è stato trovato, ora si tratta di regolarne l’utilizzo e sarà comunque un utilizzo molto lento per via degli enormi carteggi e della trascrizione dei nomi, spesso non corretta, oggi in quasi tutti i Comuni, il lavoro con le parrocchie, con gli archivi è stato fatto soprattutto grazie ai volontari.
“Ritorno in Galizia” illustra il diario del viaggio di una settimana compiuto da centosessanta trentini lo scorso anno in maggio, per visitare i cimiteri austro-ungarici della Galizia, oggi Polonia e Ucraina, un percorso simbolico per riappropriarsi di una pagina della propria storia, scrive Panizza nella presentazione del libro, naturalmente i nomi scritti sulle lapidi sono molti di meno di quelli reali, i resti dei caduti austro-ungarici sono disseminati in oltre quattrocento cimiteri di guerra di quei territori, recuperati e custoditi dai volontari della Croce Nera austriaca.
Al dramma della guerra sempre si accompagna quello dei profughi: nel maggio del 1915 si compì l’esodo forzato dalla Valle di Ledro di migliaia di persone che non avevano mai varcato i confini della Valle, costretti a salire su camion, treni, carri per destinazioni ignote, Boemia, oggi Repubblica Ceca, divenne la parola per raccontare tutto questo, “Avere fatto la Boemia” sintetizzò il patrimonio di una lotta per l’adattamento e l’integrazione che riguardava anche i campi della Moravia, di Mittendorf, di St. Pölten, esperienza che le donne ledrensi seppero condurre a testa alta, animate solo dal proprio coraggio, dalla propria integrità, dal proprio lavoro. E’ importante ricordare anche il contributo dell’archeologia nel recupero della memoria del popolo trentino coinvolto nella Prima Guerra Mondiale, perché, come sostiene Franco Nicolis, direttore dell’Ufficio Beni Archeologici presso la Soprintendenza della Provincia di Trento, la possibilità di riportare alla luce reperti umani e artistici dalla sabbia, dalle paludi, dal ghiaccio, oltre che dalla terra, è affidata da diverso tempo in altre nazioni europee, in Italia solo di recente, al metodo archeologico ciò significa che chi scava è consapevole che in quel momento sta distruggendo un contesto, lo sta rimuovendo e per poterlo poi ricostruire documenta tutto quello che sta trovando.
In riferimento agli scavi sul ghiaccio, riferisce Nicolis, abbiamo pensato che ci fosse la possibilità per l’archeologia in Trentino di fare un’operazione di recupero dei resti, affrontando, ad esempio, lo scavo in ghiaccio di un sito che si trova nella zona dell’Ortles Cechedale a 3600 m. sul livello del mare, si tratta di un apprestamento di un apparato teleferico dell’esercito austro-ungarico che partiva dalla Val di Pejo e saliva con varie stazione a questo sito che si chiama Punta Linke, parola che in tedesco significa sinistra, per indicare che si trova a sinistra della cima più importante, la cima Vioz. Hanno cominciato, racconta, qualche anno fa e hanno recuperato tutta la baracca che conteneva l’officina, anche il motore della teleferica e tutto quello che rimaneva all’esterno, più di un centinaio di copriscarponi in paglia. Il recupero di resti umani è una cosa a parte, riaffiorano molto repentinamente in questa stagione, c’è, comunque, un ritiro delle coltri glaciali a causa del riscaldamento globale, i ghiacciai quest’anno sono scesi di un metro in una settimana, cosa che normalmente avviene in dieci anni.
Quando qualcuno moriva in battaglia lassù, racconta Nicolis, non poteva essere seppellito, pensiamo alla battaglia del San Matteo a 3700 metri, non avevano lo spazio per muoversi, allora buttavano i cadaveri giù, o nei crepacci, nel 2004 in quella zona sono stati recuperati i corpi di tre Kazan Schuetzen, ben conservati, con le divise ancora indosso, che sono stati sepolti a Pejo. Il progetto è quello di fare di Punta Linke un luogo della memoria da visitare, per la gente che può arrivare a quelle quote. Un altro progetto a cui Nicolis riserva molta attenzione è quello relativo al restauro dei monumenti dell’Asinara, curato dallo studioso trentino Giovanni Terranova che da tempo ha avviato una ricerca storica sui soldati della Regione Trentino- Alto Adige-Sudtirol, arruolati nell’esercito austro-ungarico e inviati in Serbia allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, ma la memoria storica da salvaguardare riguarda anche le altre numerose nazionalità, all’epoca facenti parte dell’Impero austro-ungarico, coinvolte nel conflitto.
A Terranova e Nicolis interessa individuare i vari campi di concentramento, le varie strutture che erano all’Asinara, riuscire a identificare le posizioni sulla base anche delle segnalazioni del generale Ferrari, comandante dell’isola, che aveva fatto fare degli schizzi sugli edifici. Un viaggio tra i resti di guerra a Folgaria, Lavarone e Luserna è quello compiuto dal giovane Andrea Contrini autore della mostra fotografica “Fortezze di un Impero perduto”, inaugurata lo scorso giugno presso la Biblioteca Comunale a Gionghi, nel comune di Lavarone. Si tratta di sette fortificazioni erette dai comandi austro ungarici, negli anni precedenti la prima guerra mondiale, sugli altipiani di Folgaria, Lavarone e Luserna, aventi lo scopo di creare uno sbarramento all’esercito del Regno d’Italia.
Si parlò di guerra dei forti corazzati, capaci di resistere alle artiglierie nemiche, mentre i soldati impazzivano nei tuguri sotto terra. Forte Dosso delle Somme; Forte Sommo Alto; Forte Cherle; Forte Belvedere; Forte Luserna; Forte Verle; Spitz Vezzena, “occhio dell’altopiano,” tutti, ad eccezione del Forte Belvedere, furono saccheggiati e distrutti dai cercatori di ferro durante il fascismo. Le straordinarie immagini di Contrini ci restituiscono il senso cupo della guerra, di tutte le guerre, buone solo, come dice Raymon Quenneau, “a fare storia, ma i popoli felici non hanno storia”.