“Per la mia attività Craxi è stato probabilmente il miglior presidente del Consiglio dei cinque che ho avuto. L’ho detto e non rinnego. Con Craxi, i rapporti sono stati più stretti perché quel periodo fu caldissimo. Ricordate, la crisi dell’Achille Lauro con Sigonella e il massacro di Fiumicino? Il governo Craxi faceva sul serio la politica estera e per lui l’intelligence aveva molta importanza, la utilizzava come braccio operativo e il direttore del servizio non poteva che compiacersene. Questo non vuol dire che sono stato un craxiano. Quando Spadolini mi nominò direttore del Sismi, soltanto il giorno della nomina chiese del mio orientamento politico. Gli dissi la verità. Ero un liberale di sinistra…”. Con queste parole l’Ammiraglio Fulvio Martini, capo del SISMI il servizio militare di intelligence italiano, incarico tenuto dal 5 maggio 1984 al 26 febbraio 1991, aprì l’intervista concessa a Giuseppe D’Avanzo di Repubblica il 12 ottobre 1995 in piena bagarre per tangentopoli e mafiopoli mentre Craxi era in Tunisia come capro espiatorio planetario.
Anche per molti dell’opposizione di allora Martini era stato “il miglior capo dei servizi segreti che l’Italia abbia mai avuto“. Un’importante prova, anche se non fu l’unica, la si ebbe con la Tunisia, in quello che passò alla storia come il “colpo di Stato medico” su indicazione di Bettino Craxi a capo del governo ed Andreotti agli Esteri. Nel 1985-1987 Martini organizzò una sorta di golpe in Tunisia, creando le condizioni affinchè Ben Ali succedesse, come capo di Stato, al vecchio Bourguiba. Il vecchio Bourguiba non era più ritenuto nelle condizioni di governare la Tunisia, soprattutto per il suo stato di salute mentale, mentre il giovane Ben Alì dava ogni garanzia. I servizi segreti sono la costola principale di qualsiasi Paese che voglia avere una valida politica estera inserita in una propria visione geopolitica dove difendere e, se possibile, migliorare i propri interessi. A scorrere il libro dell’ammiraglio Fulvio Martini “Nome in codice: Ulisse” si scopre che molti governi italiani non si erano sempre occupati dei Servizi inseriti in un quadro di geopolitica e spesso li avevano addirittura trascurati.

Nella concitata e tesa telefonata del 12 ottobre 1985 tra Craxi e Reagan in piena crisi dell’Achille Lauro, il presidente americano era assistito nella traduzione da Tom Longo e quello italiano dal Consigliere diplomatico Antonio Badini. Ad un certo punto, da Roma, si intromise Michael Ledeen che aveva ricoperto diversi incarichi nel Consiglio di sicurezza nazionale del Dipartimento di Stato e del Dipartimento della Difesa, il quale fa una “contraddittoria traduzione” ad entrambi come testimoniato, anni dopo, in un articolo di Tom Longo.
L’allora capo del Sismi Fulvio Martini raccontò ai membri del Copaco che nel 1984 aveva comunicato all’ambasciatore americano in Italia, Maxwell Raab, che la presenza di Ledeen non era più gradita a Roma definendolo, in sostanza, un vero indesiderabile: “Avevo chiesto all’ambasciata americana di non far entrare Mike Ledeen in Italia: era un tizio che lavorava ai margini della Cia”. I motivi per Martini erano due: il primo era legato al fatto che quando Ledeen veniva in Italia si recava subito dal futuro presidente Cossiga che aveva conosciuto quando era ministro dell’Interno durante il caso Moro e, in secondo luogo, perché sapeva che lavorava ai margini della Cia in una zona grigia non molto chiara.

Dopo il caso dell’Achille Lauro e Sigonella a tutti noto vi fu un altro episodio che ebbe meno impatto mediatico, ma fu ancor più virulento ed avvenne il 15 aprile del 1986 un anno dopo e fu l’Operazione El Dorado Canyon. In tale operazione voluta da Ronald Reagan la Francia, la Spagna e l’Italia vietarono all’Air Force americana di violare i loro rispettivi spazi aerei per poter bombardare Tripoli. Ma quello che urtò fortemente gli Stati Uniti fu il fatto che Bettino Craxi, allertò con una telefonata il colonnello libico sull’imminente bombardamento e Gheddafi con la sua famiglia lasciò, appena in tempo, il complesso residenziale di Bāb al-ʿAzīzīyya evitando, così, di essere ucciso. La conferma della telefonata di Craxi è stata avvalorata in seguito sia da Giulio Andreotti, allora ministro degli Esteri, e sia da Abdel Rahman Shalgham in quel tempo ambasciatore libico a Roma. In sintesi, anche in questo modo si concretizzava la presenza italiana nel Mediterraneo. Presenza che, sempre, coniugava la geopolitica italiana in un quadro di riferimento che la poneva in primo piano nello scacchiere internazionale per difendere gli interessi nazionali e, se possibile, aumentarli.
La folle operazione franco-britannico-americana distrusse, 10 anni fa, la Libia ed ha consentito a Mosca ed Ankara di radicarsi in Cirenaica e in Tripolitania, grazie all’assurda volontà di Hillary Clinton, allora a capo del Dipartimento di Stato. Macron si è reso conto del fallimento del tentativo francese di voler sostituire gli italiani ed ha ammesso che la Francia “ha un debito con la Libia e i libici per un decennio di disordini”, memore del disastro causato dal Presidente Nicolas Sarkozy dimenticando, però, di citare quello con l’Italia.
Il declino italiano nel Mediterraneo è dato anche dalla contestuale caduta di Napoli e della Sicilia che, come aree portuali, avrebbero potuto recitare un ruolo primario e strategico trainando moltissimo dal punto di vista economico l’intero mezzogiorno. Il fattore logistico di Napoli e della Sicilia è di cruciale importanza in un mare dove passa il 20% delle merci del mondo. Come ha scritto il professor Romano Benini la prima cosa da fare è quella di riconoscere l’enorme “valore alla propria posizione geografica”. Solo se si saprà sfruttare questo enorme valore si potrà crescere. Infatti, l’Italia e Napoli, nel corso dei secoli, sono state forti e ricche soltanto quando hanno saputo distendere la propria influenza nel Mediterraneo la qual cosa dopo De Gasperi, Mattei, Moro e Craxi si è del tutto spenta. Da Malta al canale di Sicilia e fino a Gibilterra siamo nella vera e vitale giugulare del traffico commerciale di cui la Gran Bretagna ne esercita, da tempo, il pieno controllo per via dell’enorme importanza strategica. A nessuno sfugge un lontano, ma significativo ricordo storico allorchè, l’allora impero di Sua Maestà britannica, già si inseriva nelle faccende dell’ancor non costituito Regno d’Italia bloccando la flotta dei Borbone per consentire il passaggio in Sicilia di Garibaldi. E non si infiammino i cuori risorgimentali perché la Gran Bretagna non lo faceva certamente per dare l’unità all’Italia, bensì perché voleva eliminare la forte concorrenza del Regno di Napoli che, a livello europeo, si muoveva in chiave antibritannica in asse spesso con la Francia e anche con la Prussia.

Con l’eliminazione di Gheddafi, l’Italia è quasi morta sul piano geopolitico nel mar Mediterraneo lasciando il posto soprattutto a Turchia e Russia che sono sbarcate sulle coste libiche e si sono insediate con armi e soldati iniziando ad attingere alle ricchezze del petrolio e non solo e si sono poste alla testa di convenienti accordi economici. Senza contare, poi, l’enorme e sconosciuto numero di mercenari che non si sa bene chi li paghi e a chi e a cosa rispondano. La Libia è la chiave di volta di tutta l’economia generata dal Mediterraneo e nel Mediterraneo.
La Turchia ci ha già sfidato anche nel Mediterraneo Orientale, spingendo la ricerca di gas nelle acque territoriali di Cipro nei giacimenti concessi all’ENI e alla TOTAL all’interno del blocco esplorativo numero 7, dove Nicosia aveva affidato a italiani e francesi i suoi giacimenti.
Come se tutto ciò non bastasse la strategia di Biden ha portato ad una tregua fra Stati Uniti e Iran, quale dimostrazione della volontà statunitense di un continuo e progressivo disimpegno americano dal Medio Oriente lasciando piena autonomia ad Israele che stanno riavvicinando Gerusalemme ad un totale recupero con Ankara.

Secondo quanto evidenziato da un’analista del Balkan Investigative Reporting Network, Fatjona Mejdini, la Turchia ha esteso la propria influenza in Albania tramite strumenti di soft-power. Tale intenzione la si evidenziò già dal 2018 con la Fondazione Maarif, creata nel giugno 2016 dal parlamento turco, che comprò la New York University di Tirana. A livello economico è stato creato, fra i due Paesi, un Consiglio di Cooperazione di Alto Livello e con Mevlüt Çavuşoğlu, ministro degli Esteri di Erdogan, ha potuto dichiarare che la Turchia è diventata il principale investitore straniero e il quarto partner commerciale dell’Albania. Come se ciò non bastasse il Parlamento albanese ha, nel frattempo, approvato l’accordo di cooperazione militare con la Turchia il 23 aprile del 2020per fornire, soprattutto, l’addestramento oltre che l’ammodernamento delle Forze Armate di Tirana. L’accordo e il protocollo finanziario sono stati firmati dal ministro della Difesa delle Turchia, Hulusi Akar e da Olta Xhachka per l’Albania.
In Tunisia, dopo la cacciata del colonnello libico, ci si è ubriacati nell’inseguire la favola della sedicente “primavera araba” che non ha portato niente di tutto quello che una certa propaganda mondiale spacciava per ricerca e voglia di democrazia.

In tale contesto geopolitico da un paio di decenni abbiamo perso posizioni a Cipro, senza dimenticare Malta, la Libia e lo stesso Egitto sotto l’assordante e tollerante silenzio anglo-franco-americano a cui, negli ultimi tempi, si sono aggiunti i tedeschi con due mosse: la prima riguarda l’ulteriore regalo di 2,5 miliardi della UE ai turchi di Erdogan per mantenere chiuse le frontiere ad Est dall’immigrazione clandestina attraverso i Balcani senza nulla concedere, ovviamente, all’analogo problema dal sud dell’Europa all’Italia; la seconda, invece, riguarda la Conferenza di Berlino 2 dello scorso 24 giugno sulla Libia. La citata conferenza è stata presieduta dalle Nazioni Unite e dalla Germania con la partecipazione dei ministri degli Esteri dei Paesi coinvolti, quali Egitto, Francia, Germania, Italia, Libia, Marocco, Paesi Bassi, Svizzera, Tunisia, Turchia, Emirati Arabi Uniti, Regno Unito, l’Unione araba, l’Ue, la Lega Araba, Algeria, Cina, Russia e Repubblica Democratica del Congo ed infine, si sono riaffacciati anche gli USA, con la partecipazione del segretario di Stato Antony Blinken.

Nella prima conferenza di Berlino era stato deciso un cessate il fuoco generale e permanente, un’autorità esecutiva temporanea, la ripresa della produzione petrolifera e la ripresa dell’economia, il che era encomiabile, ma di realizzato non vi è stato nulla o molto poco. E, nel mentre si riprende a fare un’altra conferenza e a riproporsi più o meno gli stessi simili obiettivi della prima conferenza, già circolano indiscrezioni, in alcuni ambienti diplomatici, per cui la Turchia starebbe addirittura lavorando con il governo di Tripoli per istituzionalizzare la sua presenza economico-militare in Libia e la Germania, al di là delle belle frasi di circostanza, ha preso in mano il boccino della seconda conferenza di Berlino con Heiko Maas, il ministro degli esteri tedesco, che ha definito la “stabilizzazione sostenibile del paese”, un processo di transizione graduale verso le elezioni generali che si terranno nel Paese il 24 dicembre prossimo. In particolare, in agenda c’è come far rispettare il cessate il fuoco, l’embargo sulle armi e di una roadmap per l’uscita delle forze militari straniere dal Paese nordafricano, a partire da quelle di Turchia e Russia.
Vanno bene i piani del Recovery con un ampliamento delle scelte logistiche per la nostra portualità nell’Italia meridionale, ma se oltre ai soldi, non si metterà in atto un piano per una nuova e robusta strategia da media potenza nell’area saranno quattrini sprecati.
“Il Mediterraneo come risorsa. Prospettive dall’Italia” Il Mulino 2020 è un testo che può aiutare a costruire una nuova visione e mettere le basi ad un progetto. Il libro è stato scritto anche dal prof. Salvatore Capasso che dirige l’Istituto di Studi sul Mediterraneo (Ismed) oltre che professore ordinario di Politica economica presso l’Università di Napoli «Parthenope».