Bisogna tener presente che il Partito Democratico italiano è cosa totalmente diversa da quello statunitense. È stato il tentativo di far nascere una cellula in laboratorio, dalla quale molti si erano illusi di poter costruire qualcosa di simile al partito americano. Dopo la vittoria di Andrew Jackson nel 1829, i suoi seguaci diedero vita a quello che oggi è il Partito Democratico, nome assunto in modo ufficiale nel 1844, mentre gli avversari formarono il Partito Repubblicano Nazionale.
A proposito dell’idea di americanizzarsi, valga per tutti il tentativo con cui Walter Veltroni, ai tempi del lavoro per la nascita della “cellula”, sembrava ispirararsi al maestro Renato Carosone: “Tu vuò fà l’americano”. Pareva a dir poco bizzarro che un erede diretto del partito comunista come lui si ergesse a imitatore del modello nordamericano e, per supportare lo stile tipo USA, nel 1995 osò dichiarare che “Si poteva stare nel PCI senza essere comunisti”.
Oltre a questa esilarante dichiarazione, sul suo passato politico ci fu un’altra famosa esternazione. “Se sarò eletto di nuovo Sindaco di Roma – disse ospite di Fabio Fazio a Che tempo che fa? nel 2006 – alla fine di questo secondo quinquennio io avrò concluso la mia esperienza politica. Sì, perchè non bisogna fare la politica a vita”, paventando la possibilità di trasferirsi in Africa, continente che ha sempre amato.

E fu lui il primo segretario, nel 2007, del neonato PD, dove resistette appena due anni e a febbraio del 2009 buttò la spugna dimettendosi. Dopo Veltroni si sono alternati nel tentativo di guidare questa strana cellula Dario Franceschini, Pier Luigi Bersani, Guglielmo Epifani, Matteo Renzi uno, Matteo Renzi due, Maurizio Martina e, per finire, Nicola Zingaretti. Otto segretari politici in soli 14 anni: un vero e proprio primato mondiale.
Sul perché di questa serie incredibile di cambi al vertice ci sono fondamentalmente due motivi, anche se non gli unici. Il primo è sicuramente quello dei quattro temi fondativi di Veltroni (ambiente, formazione, patto generazionale e sicurezza) e la scelta di campo per il sistema elettorale maggioritario, di cui in 14 anni non si è vista alcuna traccia. Il secondo, invece, è la sudditanza alle iniziative di ogni procura italiana con la quale ha confermato, sempre più, una linea politica pressoché giustizialista e, a tal proposito, in continuità con la tradizione del Pci dal 1991 in avanti.
Dall’articolo 1 (Principi della democrazia interna) fino all’articolo 54 (Adeguamenti degli Statuti regionali), che chiude le norme statutarie del Pd, è quasi impossibile trovare quale sia la “Weltanschauung”, la visione del mondo in cui intende muoversi il partito. L’imitazione americana si evidenzia solo nel gioco delle primarie, estraneo non solo alla cultura italica, ma anche a quella europea.
La pochezza e l’inconsistenza del PD viene amplificata da ogni nuovo segretario politico, fino ad arrivare all’inseguimento dei 5 Stelle con provvedimenti populistici e demagogici, per poi allearsi in un governo con loro all’insegna di un unico leit motiv: evitare le elezioni.

E, goccia su goccia, si arriva a colmare il bicchiere con Zingaretti, che affermò in modo vibrante “Io ve lo dico davanti a tutti. E ve lo dirò per sempre. Mi sono persino stancato di dire, e lo trovo umiliante, che non intendo favorire nessuna alleanza o accordo con i Cinque stelle. Li ho sconfitti due volte e non governo con loro”. Era il 3 febbraio 2019, quando dal palco della convenzione nazionale del Partito Democratico giurava che mai e poi mai avrebbe governato insieme ai grillini.
Oppure sparate del tipo “O Conte o niente!”. Fino all’esaltazione di Giuseppe Conte, da lui definito addirittura “la carta decisiva del fronte democratico”, in un quadro di abbraccio acritico col mondo comico, disperante e disperato dei grillini. Alla fine, stritolato per un ruolo non alla sua portata, decide di dimettersi offendendo e umiliando il proprio partito con accuse gravissime, come di pensare solo alle poltrone. Tutto questo senza fare, come al solito, nomi e cognomi.
Sull’altra sponda, però, non è che si stia molto meglio. Se si torna indietro nel tempo verso la metà del 1993, quando inizia la “discesa in campo” del Cavaliere con l’invenzione in salsa pubblicitaria di “Forza Italia”, si assiste in Italia, unico Paese al mondo, al riciclo del MSI, che si tramuta in Alleanza Nazionale. Anche in quest’area, come con Veltroni e il comunismo, si tende a nascondere la diretta provenienza dall’ideologia fascista. Il tutto con l’adesione incondizionata della Lega Nord per l’Indipendenza della Padania: questa la sua precisa definizione dell’epoca, anche se è ancora ignota ai geografi e agli storici dove e cosa sia la Padania.

A tutto ciò si unì una pattuglia di democristiani, il Centro Cristiano Democratico (CCD), fondato la mattina del 18 gennaio 1994 da Pier Ferdinando Casini, già delfino di Arnaldo Forlani, e Clemente Mastella, delfino di Ciriaco De Mita che non aderisce al nuovo Partito Popolare Italiano, schierato con gli eredi del Pci e fondato nel pomeriggio di quello stesso giorno.
L’annuncio ufficiale della discesa in campo di Silvio Berlusconi viene dato con un messaggio televisivo il 26 gennaio 1994. L’uso di questo mezzo inusuale per la politica tradizionale suscita commenti che vanno dall’ammirazione alla preoccupazione. Poiché vi entrarono molti uomini di Fininvest e di Publitalia ’80, si parla subito fra i detrattori di partito-azienda, partito di plastica e partito personale.
Forza Italia, come tutti gli altri, si autodefinisce invece un “partito nuovo”, senza legami diretti con la tanto vituperata Prima Repubblica, ma soprattutto un partito liberale e non elitario, liberaldemocratico popolare, cattolico e non confessionale. oltre ad essere un partito laico, ma non intollerante o laicista; e per non farsi mancare nulla: è un partito nazionale, ma non centralista.
Dalla “Carta dei valori” si apprende che si sta costituendo “Un soggetto che si propone l’unione di tre aree politico-culturali: quella del cattolicesimo liberale e popolare, quella dell’umanesimo laico, repubblicano e liberale e quella del liberal socialismo”. Tutto e di più! Una vera e propria babele di idee politiche dove è difficile se non impossibile trovare cos’altro mancasse.
E arriviamo alle gaffe ed in certi casi alle volgarità con una breve rassegna: 2002, foto di rito al vertice Ue. Lui, il Cavaliere, simpaticamente fa il gesto delle corna per far ridere gli astanti. Anno 2003, aula del Parlamento Europeo a Strasburgo: Silvio Berlusconi apostrofa il deputato tedesco Martin Schulz, socialista, chiamandolo Kapò; per non parlare delle barzellette nelle occasioni ufficiali e, per finire, “Conosco la Santelli da 26 anni, non me l’ha mai data”. Così, dal palco di Tropea, si era espresso facendo riferimento alla sua lunga conoscenza con l’aspirante governatore del centrodestra Jole Santelli.

Ma è pur vero che mai un personaggio pubblico fu più indagato di lui. Quasi 40 processi, così ha riportato Panorama:
Ora, sicuramente non sarà uno stinco di santo, ma, in onore al giustizialismo del Pd e dintorni, sono stati fatti negli anni contro di lui un’infinità di processi mediatici, con veline provenienti dalle varie procure in ossequio alla scelta della linea giudiziaria che Gerardo Chiaromonte aveva confessato a Bettino Craxi nel 1991 e che aveva portato alla totale distruzione dei movimenti politici della storia.
Per completare il quadro e ad onore del vero storicamente il Cavaliere, nella ormai sua lunga appartenenza al mondo della politica, è stato tradito da tutti o quasi quelli che aveva fortemente contribuito ad innalzare o salvare: da Gianfranco Fini a Pierferdinando Casini, da Santo Versace a Gabriella Carlucci, da Marco Follini a Clemente Mastella, senza dimenticare il primo che fu Umberto Bossi, ma la lista sarebbe troppo lunga.
Le conclusioni che si traggono sono molte. Partendo dall’anno nero 1992, la storia è stata totalmente riscritta, per cui quelli della Seconda Repubblica, dal 1994 in poi, sono tutti buoni, mentre quelli dal 1945 al 1994 tutti cattivi.

Angelo Panebianco, in un suo articolo sul Corriere della Sera del 25 ottobre 1999, così fotografava ciò che era diventato il diritto penale italiano nel periodo di Tangentopoli e Mafiopoli: “lo strumento per processare la Storia, la Politica ed il Potere”.
Quattro anni prima di Panebianco, Indro Montanelli pubblicò sul Corriere della Sera un altrettanto mirabile articolo che stigmatizzava l’attacco sconsiderato che si stava portando a Bruno Contrada, il numero tre del Sisde. L’articolo, pubblicato il 3 agosto del 1995, era titolato: “Roba da poliziotti e roba da giudici”, in cui asseriva che di Contrada conosceva poco o nulla “Dei suoi fatti e misfatti sono all’oscuro. Ma una cosa anzitutto mi chiedo: si possono applicare agli uomini della polizia, e specialmente a quelli dei servizi segreti, le stesse regole morali che valgono per i comuni cittadini? Il campo d’azione di questi uomini sono le fogne: è possibile rimestare nelle fogne senza sporcarsi le mani e contrarne il fetore?”. Ciò che escludeva è che questo “gioco possa essere competenza di magistrati. Gli unici che possono penetrarlo e dipanarlo sono gli uomini del mestiere, cioè i capi della polizia”.
Distrutti i veri partiti politici italiani, mentre in tutta Europa hanno continuato ad esistere e a far crescere i loro Paesi, l’Italia è rimasta in balia di ululanti personaggi che nulla hanno a che vedere con la politica professionale che richiede competenza ed esperienza che, se non c’è, non può generare crescita economica.