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January 31, 2021
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66 governi in 75 anni: Jep Gambardella e il perché dell’”instabilità” politica italiana

Dall'inizio della Prima Repubblica a oggi, i governi sono rimasti in carica in media 1 anno e un mese. Si può spiegare agli americani il "particulare" dell'Italia?

Giacomo PierinibyGiacomo Pierini
Toni Servillo nella parte di Jep Gambardella

Toni Servillo nella parte di Jep Gambardella (Immagine da youtube)

Time: 5 mins read

“Ancora una crisi di governo?”. Per il mio lavoro viaggio spesso all’estero e, poco fa, un collega americano mi chiedeva: ma in Italia dopo la fine dei partiti storici non avevate iniziato un periodo di alternanza? Dopo Berlusconi non era venuto Prodi, poi Berlusconi, poi Renzi e poi ultimamente la novità del Movimento 5 Stelle? Perché è caduto il governo?

Al che io l’ho guardato con aria compiaciuta e superiore e ho risposto lapidario: “perché un partito della coalizione ha tolto la fiducia al governo”. Ho scorto subito la sua faccia stralunata e un gesto con le sopracciglia. Nonostante ciò ho continuato: “è vero, un’altra crisi, ma l’Italia è comunque un paese molto stabile, dove per cinquanta anni ha governato un partito, la Democrazia Cristiana e dove negli ultimi trenta c’è stata una sostanziale alternanza tra centrodestra e centrosinistra”. Mentre lo stavo dicendo mi rendevo conto da solo dell’incongruenza di quanto stessi dicendo ed il mio collega deve essersene accorto. “Ok, dai, parliamo di calcio” ha tagliato corto.

Aldo Moro durante il Congresso della Democrazia Cristiana a Roma del 1977 (Foto Wikimedia)

Già, stabilità, ma nell’instabilità… Cerco allora di ricapitolare per chi ci legge da oltreoceano: dal 1946 ad oggi in Italia ci sono stati 66 governi (fino al Conte II) in 75 anni, con una media di 1 anno e 1 mese per ogni governo. Anche il Governo Conte II non è sfuggito a questa “regola”: è stato in carica esattamente un anno e quattro mesi. Solamente 6 governi su 66 nella storia repubblicana hanno superato i due anni di vita, il 9% del totale. Nella cosiddetta Prima Repubblica (quella che giornalisticamente viene indicato come il periodo della storia repubblicana fino al 1994) ci sono stati 50 governi in 48 anni con una durata media di 349 giorni per governo (solamente i governi Moro III ed il Craxi durarono più di due anni); mentre dal 1994 ci sono stati 16 governi in 27 anni con una durata media di 610 giorni, quasi il doppio.

“Ma allora se l’Italia è stabile, perché cade un governo dopo l’altro?” mi incalza di nuovo il mio amico. A quel punto faccio un respirone a provo a dare una risposta.

1 giugno 2018: Il Presidente del Consiglio dei Ministri Giuseppe Conte, firma durante la cerimonia del giuramento davanti al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella (Foto Quirinale.it)

“Nella prima fase dal 1946 al 1994 l’Italia era inserita nello scacchiere occidentale della Guerra Fredda ed il sistema politico rimase bloccato fino alla caduta del Muro di Berlino ed alla trasformazione tra il 1989 ed il 1991 del PCI in PDS: durante tutto questo periodo il cambiamento continuo di governo avveniva per frizioni e cambi di potere all’interno della DC o tra la DC ed i partiti alleati (PSI, PSDI, PLI, PRI), ma nella sostanza la guida rimaneva saldamente in mano al partito di maggioranza relativa: Giulio Andreotti governò per un totale di 7 anni e 4 mesi, ma con sette diversi Governi. Idem Alcide De Gasperi. Aldo Moro 5 governi in 6 anni.  Amintore Fanfani 6 governi in 5 anni. Gli uomini, in grande misura, erano gli stessi, quello che cambiavano erano gli assetti interni. Dopo di che, dal 1994 al 2018 hanno governato per 11 anni governi di centrosinistra (7 governi con 5 premier diversi: Romano Prodi, Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Matteo Renzi e Paolo Gentiloni),  per 9 anni governi di centrodestra (4 governi sempre con lo stesso premier Silvio Berlusconi) e per 4 anni 3 governi chiamiamoli “spuri” (Mario Monti sostenuto da tutto il parlamento meno Lega Nord e Italia dei Valori; Lamberto Dini sostenuto dal centrosinistra e Lega Nord; Enrico Letta sostenuto da centrosinistra e Forza Italia). Dal 2018 l’irruzione del Movimento 5 Stelle nel panorama politico ha portato due governi, con due diverse maggioranze guidate dalla stessa persona, Giuseppe Conte: 461 giorni il governo Conte I a guida M5S-Lega e 510 giorni il governo Conte II a guida M5S-centrosinistra”.

Matteo Renzi con i ministri del suo governo dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per il giuramento
13 gennaio 2016: Matteo Renzi con i ministri del suo governo dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano per il giuramento (Foto Quinale)

Vedevo la faccia del mio collega ancora più allibita e mentre gli rispondevo anch’io cominciavo a chiedermi: ma allora, perché se per 50 anni ha governato lo stesso partito, la DC, e per grandissima parte dei successivi 30 anni c’è stata un’alternanza equa tra centrodestra e centro sinistra, i governi cadono uno ogni anno ed ogni anno sembra uno psicodramma? In 18 legislature ci sarebbero dovuti essere 18 governi, non 66…

E la risposta che ho trovato si chiama “rendita di posizione marginale”. Qui mi viene in mente la frase di Jep Gambardella, ed ecco il perché del titolo dell’articolo, il protagonista de “La grande bellezza”, il film premio Oscar di Paolo Sorrentino quando dice: “Io non volevo solo partecipare alla feste, io volevo avere il potere di farle fallire!”. Avere il potere di condizionare i governi fino al loro fallimento, più che prendervi parte. Ecco il segreto…

Fino al 1994 il sistema proporzionale garantiva un forte potere ai partiti marginali e alle correnti all’interno di uno stesso partito, in primis la Democrazia Cristiana (dorotei, fanfaniani, morotei, andreottiani, sinistra DC). Così ad ogni Congresso e Consiglio Nazionale della DC iniziava a “ballare” il Governo di turno. Quando cambiava maggioranza delle correnti all’interno della DC, andava fatto “il tagliando” al governo”, con un nuovo Presidente del Consiglio e una nuova squadra di ministri. Così caddero decine di governi, anche se rimasero tutti a salda guida DC.

11 maggio 1994: il governo di Silvio Berlusconi al Quirinale dal Presidente Luigi Scalfaro per la cerimonia del giuramento (Foto Quirinale)

Dal 1994 in poi si creò una sorta di “maggioritario all’italiana”, in cui si presentavano le coalizioni (Progressisti, Casa delle Libertà, Ulivo, Popolo delle Libertà) ma che al loro interno riproducevano i pesi proporzionali dei partiti. Se si eccettuano i quattro governi che sono andati a scadenza naturale nel 2001, 2006, 2013 e 2018 e i due “bocciati” dalla Lega nel 1994 e 2018 – gli altri sono stati quasi tutti sfiduciati – è una constatazione empirica – da una minoranza che ha fatto pesare la propria “rendita di posizione marginale”: Rifondazione Comunista (37 parlamentari su 508 di maggioranza, il 7%) provocò la caduta del primo governo Prodi, l’uscita dal governo di Nuovo PSI e UDC (73 parlamentari su 529 di maggioranza, il 13%) produsse la caduta del Berlusconi II, quella di CDU e UDR (46  parlamentari su 542 di maggioranza, l‘8%) del governo D’Alema I, l’UDEUR (17 parlamentari su 517 di maggioranza, il 3%) del governo Prodi II. Fino a questi giorni in cui Giuseppe Conte si è dimesso perché un partito della coalizione, Italia Viva (46 parlamentari su 526 di maggioranza, l’8%) – indispensabile per avere la maggioranza dei voti alla Camera ed al Senato – ha ritirato la fiducia al governo Conte II.

Pragmatismo o opportunismo? Legittimo o non eticamente corretto? Il “particulare” per un fine più alto di guicciardiana memoria o il prezzoliniano “spirito di tornaconto”? Non lo so, ma guardando ai fatti è stato così. Sic et simpliciter. Naturalmente, se ve lo state chiedendo, tutto ciò non ho provato nemmeno lontanamente a spiegarlo al mio collega e la cena di lavoro è proseguita all’insegna di saporite pappardelle al ragù e ottimo vino Chianti. Anche se accennandogli poi, al momento del dessert, la frase di Jep Gambardella ha fatto una risata ed ha annuito con la testa. Non so però se abbia capito fino in fondo.

Caffè e conto. “Chiamami quando torni per raccontarmi come è andata, ok?” mi ha detto il collega. “Ma certo intanto adesso c’è da fare il 67°e tra due anni, dopo le elezioni, il 68°…altro giro, altra corsa, ma ti tengo aggiornato”. Il conto, però, l’ha fatto pagare a me.

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Giacomo Pierini

Giacomo Pierini

Laureato e Dottorato in Storia contemporanea, un Master in Marketing digitale e un Master in Big Data e Business Analytics. Di lavoro faccio il Direttore marketing nell'editoria e sono appassionato di geopolitica e di marketing; ho scritto da poco un romanzo giallo ambientato nella mia Firenze, dal titolo “In prima fila non sempre si vede bene”.

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