Si dice a Napoli che in guerra “nun ‘a vince chi è chi forte, ‘a vince chi è chiù brav’a aspetta”. Vale anche in politica, che con la guerra condivide “l’arte” del saper pazientemente cogliere il momento dell’opportunità, dell’astuzia, della tattica spregiudicata, e della strategia.

Il leader della Lega, l’auto-battezzatosi “capitano”, Matteo Salvini che sembrava essere a capo di una “invincibile armata”, è lo sconfitto: dalla crisi agostana da lui stesso aperta è uscito indebolito e ridimensionato: la sua “imagine” di uomo forte ha perso di credibilità; la sua azione politica di “rottura” non ha portato ad altro risultato se non quello di isolare il suo partito nel paese e in Europa; può ancora vantare un ragguardevole consenso, ma i suoi “crediti” cominciano a essere erosi; essendo uscito dalle stanze dei “poteri” è inevitabile. Salvini ha commesso una serie di errori marchiani che rivelano la sua sostanziale inconsistenza intellettuale, e lo rendono assai poco credibile agli occhi di chi, piaccia o no, ha in mano le leve del potere reale. Nelle cancellerie di mezzo mondo, la sua immagine risulta offuscata, appassita; è stato abile nel propagandare “fumo”; l’“arrosto” che poi ha servito si è rivelato immangiabile. Diciamolo senza girarci troppo intorno: Salvini è un bluff. Costretto alla fine a scoprire le sue carte, si è scoperto che in mano aveva si e no una coppia…

(foto di Francesco Ammendola – Ufficio per la Stampa e la Comunicazione della Presidenza della Repubblica)
I vincitori: sono almeno quattro. Il primo è il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Da sempre ostile allo scioglimento anticipato delle Camere, ha lavorato di bulino per scongiurare elezioni anticipate, ed è riuscito ad assicurare una nuova maggioranza, sotto la guida del presidente del Consiglio uscente: quel Giuseppe Conte nato come “re Travicello”, che non si è certo trasformato nello “statista” da molti ora descritto (per esserlo ci vuole ben altro, e in Italia pochissimi lo sono stati veramente: Alcide De Gasperi; a tratti Bettino Craxi e Giovanni Spadolini); Conte però è stato abile nello sfruttare occasioni e dominare situazioni, la sua forza consiste in una generale altrui debolezza. E’ alla guida di una fragile coalizione, costituita da Partito Democratico e Movimento 5 Stelle, sorretta da una scarna ma essenziale pattuglia di parlamentari “volenterosi”. Ha Saputo crearsi un’immagine rassicurante all’estero; ha buoni rapporti con il Vaticano; non grida, non strepita, è sempre composto e sobriamente vestito. E’ insomma adatto alla sua parte, e ha dimostrato di sapere molto bene quando era opportuno abbandonare un naviglio che faceva acqua; in politica è una dote.
Per tornare a Mattarella: è un democristiano formatosi sotto la scuola di Aldo Moro: un siciliano dai lunghi e significativi silenzi, di poche, meditate parole; di ferrea volontà che mimetizza in una mitezza tranquilla e rassicurante; ma è qui la sua solidità e la sua forza. Da ex ministro e componente della Corte Costituzionale, conosce perfettamente riti, percorsi, liturgie della politica e della scienza giuridica. Capace, insomma, del classico pugno di ferro in guanto di velluto. Inoltre non dimentica, sa quando e come presentare i conti.

Della stessa scuola un altro “figlio” della Democrazia Cristiana che fu, anche se mascherata da bonomia emiliana: Romano Prodi. Sembrava uscito di scena, interessato a sporadiche docenze universitarie e fruttuose consulenze, chiusa la esperienza politica. Mai dire mai. Prodi ha ben messo a frutto il suo apparente “buen retiro”, per consolidare una ragnatela di conoscenze e relazioni internazionali, che spaziano dagli Stati Uniti alla Cina; da Bruxelles al Vaticano. Non ha mai perso di vista lo scenario italiano, ha svolto per mesi il ruolo di “padre nobile” e coscienza critica del centro sinistra e del PD; anche lui ha le stesse qualità di Mattarella: parla poco, dice molto. E’ stato il primo a indicare la possible strada che porta all’alleanza PD-M5S, e sotto traccia ha lavorato per questo, con una moral suasion efficace nei confronti di molti esponenti di poteri reali perplessi e dubbiosi.

Infine, tra i vincitori, va annoverato un terzo democristiano. Non è Matteo Renzi, che ha molto strepitato, cercato e ottenuto discreta visibilità, che lascia il tempo che trova: l’essere non sta nel sembrare e tantomeno nell’apparire. No, il terzo vincitore si chiama Dario Franceschini. Memore del fatto che il potere, andreottianamente parlando, logora chi non ce l’ha, ha avuto cura di garantirsi un seggio ministeriale. E’ lui che fin dal giugno scorso, raccogliendo e facendo tesoro delle raccomandazioni di Prodi, ha pubblicamente teorizzato la necessità di un’intesa con il movimento di Grillo per far fronte all’avanzata leghista-sovranista; senza batter ciglio ha incassato il fiero “non se ne parla neppure” di Renzi che ha minacciato sfracelli, fuoco e fiamme; si è pazientemente seduto in riva al fiume, e luglio ha assistito compiaciuto all’ennesima capriola renziana, che – sceso a più miti consigli – ha rinunciato a fondare un suo partito e convenuto che era inevitabile trovare un’intesa con le truppe di Grillo.

I tre moschettieri erano in realtà quattro. In questo caso, il quarto vincitore ha un nome: quello del segretario del PD Nicola Zingaretti. Non è di scuola democristiana; viene dal Partito Comunista, dove ha militato fin da ragazzo. Nel partito ha scalato, gradino dopo gradino, tutta la “gerarchia”, modellandosi man mano che il partito si trasformava. E’ uomo di apparato, “grigio”; gli si rimprovera, non a torto, mancanza di carisma; il suo eloquio non trascina, non esalta. Al tempo stesso incarna l’“uomo tranquillo”, rassicurante; tenace. Nei fatti è un mastino: addenta un osso, non lo molla fino a quando non lo ha triturato.
Con questo metodo, Zingaretti ha vinto le primarie, è diventato segretario; lentamente, ma inesorabilmente de-renzizza il partito. Ha un problema: de-renzizzare i gruppi parlamentari. Le elezioni anticipate gli avrebbero fatto comodo: lui avrebbe composto le liste, piazzando nei posti migliori i suoi pretoriani. Avrebbe senz’altro conquistato i gruppi parlamentari, ma con la sicura vittoria della Lega avrebbe dimezzato la sua forza parlamentare. Operazione rischiosissima. Pur sostenendo di non aver paura del voto, nei fatti ha lavorato per evitarlo. Ora è al governo: un governo che presumibilmente durerà per l’intera legislatura, perché è anche interesse del Movimento 5 Stelle. Zingaretti avrà tutto il tempo per “de-renzizzare” i gruppi parlamentari, con un lento lavoro di scavo, da talpa quale ha dimostrato di saper essere. Non vince i cento metri, ma nelle lunghe maratone è imbattibile. Per questo il quarto vero vincitore è lui.
In definitiva, questo governo Cinque Stelle-PD è un duro e grosso rospo da ingoiare. Ma forse si rivelerà il più digeribile. Siamo in Italia, la patria del diritto (e del suo rovescio).