“You’re fired!”, o se preferite, “sei fuori!” (nella versione italiana). Erano queste le parole gridate da Donald J. Trump ai concorrenti più sfortunati di The Apprentice, il popolarissimo reality show diventato un cult della tv a stelle e strisce. All’epoca The Donald era ancora una stravagante star televisiva e nessuno si sognava che potesse mai diventare l’uomo più potente della terra.
Eppure, se guardiamo alla velocità con cui il presidente silura i membri della propria amministrazione, sembra di essere stati catapultati di botto dentro un reality. Tra consiglieri, ministri e pezzi grossi delle agenzie governative, secondo gli ultimi calcoli Trump ha infatti fatto fuori, direttamente o indirettamente, più di trenta persone. Ma i calcoli vanno aggiornati di minuto in minuto e le sorprese non mancano mai. Lo dimostra quanto è accaduto nelle ultime ore.
L’incerto destino del generale. A tamburo battente, tutti i maggiori media americani avevano dato per certo il licenziamento del consigliere per la sicurezza nazionale H.R. McMaster. Un’autentica “notizia-bomba”, che avrebbe stravolto ulteriormente i già precari equilibri dell’amministrazione.
Ebbene, dopo una sequela di titoli roboanti e successive smentite, la sua testa non è ancora caduta. Alcuni pensano che sia solo questione di giorni prima che arrivi il suo turno, appena il tempo di trovare un sostituto.
Di certo, un allontanamento di McMaster sarebbe il segno di una sempre maggiore insofferenza del presidente verso ministri in grado di contraddirlo. Il generale in questione è infatti una figura di tutto rispetto: il suo profilo non è solo quello di un uomo d’azione, ma di un accademico e di uno storico militare preparatissimo. Fin dai tempi del dottorato, in cui dedicò la tesi agli errori strategici compiuti durante la guerra del Vietnam teorizzando la necessità di un rapporto dialettico tra vertici militari e presidenza.
L’ultimo trombato. Nel frattempo, mentre gli occhi erano tutti puntati su McMaster (per ora sopravvissuto), a cadere sul serio poche ore fa è stata la testa Andrew McCabe, vice direttore dell’FBI ed ex braccio destro di James Comey (fatto fuori a maggio dello scorso anno). Con un immancabile tweet confezionato poco prima dell’alba, Trump ha salutato l’evento in modo trionfale, scrivendo che il licenziamento segna “un grande giorno per gli uomini e le donne che lavorano sodo nell’FBI e un grande giorno per la democrazia”. Poi, per dare il colpo di grazia, ha definito McCabe “un chierichetto” di Comey.

Il motivo ufficiale dell’allontanamento sarebbe la divulgazione di notizie alla stampa da parte del funzionario, ma tutti sanno che dietro c’è dell’altro. In particolare, Cabe sarebbe uno dei testimoni chiave nell’inchiesta sul russiagate, condotta dal procuratore generale Robert Mueller, e probabilmente si temeva che potesse avvalorare la tesi dell’ostruzione di giustizia con cui gli accusatori del presidente cercano di incastrarlo.
Insomma, è innegabile che Trump senta il fiato di Mueller sul collo e facendo fuori McCabe si è tolto dai piedi un personaggio scomodo. Ciò vuol dire che lo “scontro sotterraneo” tra l’inquilino della Casa Bianca e pezzi del cosiddetto “deep state”, in cui i veri rapporti tra il tycoon e il Cremlino finiscono quasi in secondo piano, è emerso ormai in superficie. Stare dietro alla questione con lucidità rimane però difficilissimo di fronte ai pregiudizi, al sensazionalismo e alla cattiva informazione a cui ci hanno abituato negli ultimi tempi i media statunitensi.
I contrasti con Tillerson. Prima che la vicenda McCabe irrompesse sulla scena, a finire nelle schiere degli “ex” ministri era stato il segretario di stato Rex Tillerson, silurato martedì scorso e sostituito da Mike Pompeo, poco prima a capo della CIA.
I rapporti burrascosi tra il presidente e il capo della diplomazia erano noti da tempo. Su una serie di questioni cruciali i due erano infatti in netto contrasto; prima fra tutte quella sull’accordo nucleare iraniano, che Trump vorrebbe stracciare e Tillerson insisteva per mantenere. Per non parlare dei dazi imposti all’acciaio e all’alluminio e delle relazioni con la Russia, con l’ex segretario di stato attestato su posizioni violentemente anti russe e l’inquilino della Casa Bianca fautore di un riavvicinamento a Mosca.
Le due personalità erano diversissime: da un lato il chiassoso commander in chief “antisistema”, dall’altro il compassato ministro, incarnazione del tanto odiato establishment. Nel corso del tempo le tensioni personali si sono fatte sentire e non è escluso che abbiano giocato un ruolo importante nel licenziamento.
Nessuno è al sicuro. Che siano contrasti strategici, divergenze politiche, tentativi di influenzare inchieste in corso o banali antipatie personali, Trump sembra non farsi troppi problemi nel fare e disfare la compagine governativa a proprio piacimento, a costo di apparire impulsivo e incoerente. Alcune delle sue scelte, come quella del pittoresco ex capo della comunicazione Anthony Scaramucci, si sono rivelate disastrose (e ridicole), altre, come quella del segretario alla difesa James Mattis, paiono ancora reggere. Ma una cosa è certa: come in The Apprentice, nessuno può dirsi al sicuro.