Venezuela: se ne parla poco. Se ne sa poco. D’accordo, e paese tutto sommato “periferico”, se si guarda la carta del pianeta, incastonato tra Colombia, Guyana, Brasile e mare caraibico. Tuttavia ci vive una cospicua comunità di italiani e di oriundi. Una maggiore attenzione a quel che accade a Caracas e dintorni, non guasterebbe.
Molti venezuelani sono disperati, arrivano a lasciare i loro figli negli orfanotrofi, perché non possono sostenerli. La fame è sempre più diffusa, così come la repressione politica del regime di Nicolas Maduro; ed è in corso una vera e propria migrazione di massa. Quasi un milione di venezuelani hanno lasciato il loro paese negli ultimi due anni; secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni un aumento durante la seconda metà del 2017, quando l’economia inizia a peggiorare ulteriormente. E bisogna aggiungere le centinaia di migliaia di persone fuggite tra il 1999 e il 2015.
I contraccolpi nei paesi confinanti sono pesanti. La crisi è più acuta in Colombia: tremila soldati lungo il confine cercano di contenere l’afflusso di venezuelani in fuga. Circa 250.000 migranti venezuelani sono entrati in Colombia da agosto scorso. Quasi un milione di venezuelani hanno lasciato il paese, nel corso di due anni. Sono ancora più dei 650.000 musulmani rohingya fuggiti dalle atrocità in Myanmar. Altri 150.000 venezuelani sono andati in Perù l’anno scorso, migliaia sono andati in Brasile.
Insomma la diaspora venezuelana è in crescita.
Un centinaio di bambini, dall’inizio dell’anno, sono stati uccisi dalla fame. In Venezuela funzionano appena cinque macchine per la radioterapia e solo il 9 per cento dei malati di cancro ha accesso alla chemio. L’inflazione ha superato il 4.000 per cento, portando gli stipendi a due euro al mese. Maduro ha indetto in modo illegale le elezioni per il 22 aprile, con tutti i candidati sgraditi finiti in carcere, costretti all’esilio, inibiti dal tribunale.
Può accadere di tutto, in quel paese, e di recente il ministro degli Esteri statunitense Rex Tillerson ha visitato Messico, Argentina, Perù, Colombia e Giamaica; nell’agenda dei suoi colloqui, il Venezuela ha tenuto banco. Ufficialmente: concordare il modo migliore per riportare la democrazia a Caracas; capitale, giova dirlo, di un paese che, letteralmente galleggia sul petrolio. Tillerson poi (coincidenza significativa), per anni è stato alla guida della ExxonMobil. Quanto basta per rendere un po’ meno “periferico” il Venezuela e per prestare maggiore attenzione a quanto accade (e accadrà) da quelle parti.