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September 15, 2017
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September 15, 2017
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La politica alle prese con il voto vegano

L'elettorato dei vegetariani "spinti" sarebbe in crescita e i politici aprono la stagione di caccia

James HansenbyJames Hansen
La politica alle prese con il voto vegano

Immagine ripresa dal sito www.vegolosi.it

Time: 2 mins read

Il recente annuncio di Jeremy Corbyn, leader del partito Laburista inglese, di star “preparandosi” a diventare vegano ricorda il caso del ministro italiano dell’Ambiente che, in crisi di astinenza mediatica, ha convocato i giornalisti per dichiarare di essersi scoperto bisessuale. L’evoluzione delle loro vite interne ha retto poco sui media mentre ci si domandava se la svolta avesse un significato. È sembrato di no e la questione è finita lì.

Dei due casi, è l’abbraccio all’elettorato vegano il più interessante. Il fenomeno del vegetarianismo “spinto” – senza uova né prodotti del latte- è molto cresciuto negli ultimi anni. Secondi dati Eurispes, nebulosi, il 3% della popolazione italiana potrebbe essere vegano ormai, mentre altre stime più “lasche” arrivano perfino all’8%. Il fenomeno è forse giunto al punto di incidere sulla vita pubblica. Quando è emerso in Inghilterra che la stampa dei nuovi biglietti di banca in plastica da cinque sterline impiegava una quantità minuta di sego – grasso animale – la protesta vegana è stata feroce. La Bank of England ha reagito magnificamente: “Non c’è problema, sostituiremo con l’olio di palma…”, una sostanza veganamente accettabile ma non molto popolare. Si è tornati poi, serenamente, al processo originale.

Il veganismo attuale nasce da un equivoco. In origine – il “credo” risale al 1944 – la motivazione era di tipo puramente etico/morale: il rifiuto dello sfruttamento dei nostri fratelli animali. Per l’ortodossia vegana, non era immaginabile l’aderente con le scarpe o la borsa di cuoio, né il consumo del miele e dei prodotti di cera d’api. La dieta non aveva finalità salutiste. Anzi, si accettavano di buon grado i prodotti sostitutivi derivanti dalla sintesi chimica come una sorta di costo della purezza morale. Non era di per sé una ricerca del “naturale”. Poi, strada facendo, la pratica si è incrociata con il più recente rifiuto dell’industriale e del consumo di massa – e la preoccupazione per la linea.

Oggi troviamo il paradosso che, mentre i vegani evitano carni e formaggi, i liquori forti vanno bene. Lo scotch Macallan e la vodka Absolut, essendo totalmente vegetali, sono “vegan friendly” – come in linea di principio il tabacco, per quanto molte sigarette industriali contengano additivi d’origine animale. Ma vanno bene le Winston: “vegane” non perché prodotte per esserlo, ma in quanto la manifattura non prevede materiali vietati – cosa vera anche della Coca Cola peraltro.

È il tabacco più dei liquori che mette in imbarazzo il movimento. Si vorrebbe bandirlo, arzigogolando che “ecco, hanno fatto test sugli animali per dimostrare che fa male” – però, se vogliono, anche i più rigorosi vegani possono bere e fumare. Possono anche votare, ed è lì che volevamo arrivare. Se – e come – voterebbero in blocco però è abbastanza un mistero. Il veganismo (almeno quello USA) è prettamente borghese e fortemente femminile (79%). L’orientamento generico “progressista” è indubbio, come però anche l’attenzione ai temi “verdi”, che invece, visto l’aspetto anti-moderno, è spesso fondamentalmente conservatrice. Potrebbe non importare molto. L’etichetta è sovente più un’aspirazione che una realtà. In una ricerca USA dei nutrizionisti Ella Haddad e Jay Tanzman su 13mila vegetariani “dichiarati”, 2 su 3 hanno ammesso di avere consumato carne entro le precedenti 24 ore. Un altro studio specificamente sui vegani dimostra che il 70% torna poi alle abitudini carnivore – meglio dei vegetariani semplici però, che cedono all’86%.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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