“Prosciugare la palude”. Era questo lo slogan gridato da Donald Trump e dai suoi sostenitori durante la campagna elettorale contro la corruzione imperante a Washington. Lanciando quel grido liberatorio, e appoggiando candidati di rottura come il tycoon e Bernie Sanders, una parte dell’elettorato americano manifestava tutta la sua insofferenza verso l’establishment politico (democratico e repubblicano), che negli ultimi vent’anni sembrava essersi dimenticato della middle class bianca, preferendogli gli interessi di Wall Street e delle grandi multinazionali.
Sfruttando a suo vantaggio il malcontento e presentandosi come il paladino degli ultimi, Donald Trump è riuscito a novembre a scavalcare la rivale Hillary Clinton (espressione dell’establishment) guadagnando la presidenza.
Eppure, man mano che il presiedente eletto rende noti i membri della futura amministrazione, quel motto sembra stonare sempre più con i nomi che comporranno il nuovo esecutivo. La squadra di governo, oltre che da un gran numero di ex generali, è infatti in larga parte formata da uomini d’affari legati a doppio filo con il mondo della finanza e delle big corporation duramente criticati da The Donald durante i suoi infiammati comizi. A cominciare dagli ex pezzi grossi di Goldman Sachs (primo fra tutti il Segretario del Tesoro Steve Mnuchin), fino al ministro dell’istruzione Betsy DeVos, nota per i suoi interessi nel finanziamento dell’istruzione privata.
Uomini e donne dell’establishment, dunque, che del sistema corrotto criticato dal presidente eletto hanno nel corso degli anni tratto indubbi vantaggi. Alcuni giornali d’oltreoceano, sempre pronti a esagerare, hanno definito il futuro governo Trump come “il più ricco della Storia”, scandalizzandosi per le posizioni ultraconservatrici dei suoi membri in tema di ambiente, salario minimo o privatizzazione della sanità.
Ma che si prefigurasse un governo conservatore, dopotutto, era scontato. Lo stesso presidente eletto, mentre tra una bordata populista e l’altra annunciava un piano protezionistico e massicci investimenti in infrastrutture, non ha mai fatto mistero di ispirarsi alle politiche della “trickle down economics” inaugurate da Reagan, fatte di tagli fiscali ai ricchi e alle grandi corporation.
Viste in quest’ottica, le posizioni ideologiche dei nuovi arrivati non sono affatto diverse da quelle mainstream del partito repubblicano d’oggi. E Trump, in fondo, pur criticandone la leadership, si è candidato con il GOP.
Il problema creato da alcune delle nuove nomine trumpiane, semmai, è un altro, riassumibile in un’espressione che noi in Italia conosciamo fin troppo bene: conflitto d’interessi. A gettare un’ombra preoccupante sulle modalità con cui Trump intende a breve gestire la cosa pubblica è stata soprattutto la designazione di Rex Tillerson a Segretario di Stato, ufficializzata martedì.
Scartando opzioni di gran lunga meno controverse, come per esempio quella di David Petraeus, il tycoon ha scelto alla fine l’amministratore delegato di Exxon Mobil, uno dei giganti dell’industria petrolifera americana con fortissimi legami d’affari nella Russia di Putin.
Era chiaro da tempo che nel nuovo corso della politica estera americana ci sarebbe stata una sana distensione dei rapporti con Mosca e una probabile eliminazione delle sanzioni inflitte ai russi dopo l’annessione della Crimea (circostanza positiva). Tuttavia, che a gestire il processo ci sia proprio Tillerson qualche dubbio lo crea, visti i contratti miliardari congelati a causa delle sanzioni.
Non bastasse, la presenza di Exxon in ben 50 paesi del mondo genererà inevitabilmente fondati sospetti, portando in futuro a chiedersi qual è il confine (o meglio se c’è ancora un confine) tra Dipartimento di Stato e interessi privati.
Insomma, se da un lato il tycoon ha imposto un regolamento severo nei confronti di coloro che in futuro accetteranno un impiego nella sua amministrazione, impedendogli di lavorare come lobbisti fino a cinque anni dopo aver lasciato il loro incarico alla Casa Bianca (ora il limite è solo di un anno), dall’altro sembra assumere direttamente i donors, infischiandosene, come al solito, delle contraddizioni generate dai suoi comportamenti.
D’altronde, è innegabile come egli stesso debba fare i conti con un personale conflitto d’interessi, né ancora conosciamo nei dettagli come si evolverà la situazione. Per ora, lo stravagante newyorkese ha solo affermato che a gestire le sue aziende saranno i figli Don Junior ed Eric e non un autentico blind trust, soluzione di solito preferita in questi casi.
I segnali avuti fin ora non rassicurano affatto: in due casi, infatti, pare che il tycoon abbia preso la questione fin troppo alla leggera. Nel primo, i media hanno riportato dubbi sul contenuto di un colloquio tra The Donald e il presidente argentino Mauricio Macri, che avrebbe portato allo sblocco di alcuni permessi congelati da anni per la costruzione di un grattacielo di proprietà di Trump a Buenos Aires; nel secondo, invece, è stata la presenza della figlia durante i colloqui privati con il premier giapponese Shinzo Abe a far discutere, dato che Ivanka ha in sospeso alcuni contratti in Giappone per conto della propria ditta di gioielli. Per non parlare di Deutsch Bank, per ora sotto torchio da parte del Dipartimento di Giustizia, che ha prestato al magnate ingenti somme (si parla di una cifra intorno ai 300 milioni di dollari).
Sospetti a parte, la settimana è invece trascorsa nel segno di eventi importanti. Mercoledì, Trump ha incontrato a New York i rappresentanti delle grandi multinazionali americane della tecnologia, e stando alle indiscrezioni nel meeting si è parlato di come mantenere posti di lavoro in patria, evitando che colossi come Microsoft o Apple continuino politiche di delocalizzazione per ingigantire i profitti risparmiando sulla manodopera.
Le pressioni del presidente eletto, a dir la verità, paiono aver subito qualche effetto positivo, tanto che alla vigilia del colloquio IBM ha annunciato di voler assumere nei prossimi 4 anni 25.000 persone solo negli USA (di cui 6.000 di qui alla fine del 2017).
E i mercati già si preparano alla Trumpconomics, dimostrandosi moderatamente ottimisti. Con una decisione attesa da tempo, mercoledì la Fed ha alzato i tassi di interesse, per agevolare la nuova politica economica annunciata dal presidente eletto.
Infine, la luna di miele tra il magnate e i suoi sostenitori continua, come dimostra l’ennesima tappa del Thank You Tour negli swing states prevista per stasera in Pennsylvania. Ma sullo sfondo la palude, lungi dall’essere prosciugata, incombe.