Pochi giorni, forse poche ore, e poi finalmente Donald J. Trump renderà noto il nome del futuro Segretario di Stato. La nomina del nuovo capo della diplomazia americana è quantomai travagliata: il ruolo è ambitissimo, la competizione accesa, gli interessi in gioco pesanti.
Non è un caso che le ultime indiscrezioni rese note dai maggiori media statunitensi, invece di restringere la rosa dei papabili parlino di nuovi candidati, i quali dall’inizio di questa settimana incontreranno il presidente eletto per gli ultimi, decisivi colloqui.
Si tratta, a ben vedere, della scelta più difficile da quando il team Trump ha messo in moto la macchina delle nomine. Per il resto, tycoon ha colmato abbastanza in fretta le altre posizioni vacanti, prediligendo un mix di milionari e figure politiche dell’establishment repubblicano.
Così, Steven Mnuchin (ex Goldman Sachs e poi responsabile delle finanze in campagna elettorale) è finito al Tesoro, il magnate e amico Wilbur Ross al Commercio, il generale James N. Mattis (considerato un falco “ragionevole” anche dall’opposizione) alla Difesa.
Le posizioni di Segretario ai Trasporti e Segretario alla Salute sono state invece state occupate da due veterani della politica come Elaine L. Chao (ex Segretario al Lavoro nell’amministrazione di George W. Bush) e Tom Price (deputato repubblicano della Georgia).
“Il governo dei magnati” l’hanno definito i giornali, e in effetti il nome è azzeccato, dati i generosi conti in banca dei personaggi appena citati, che compongono una delle amministrazioni più ricche degli ultimi decenni.
Eppure la poltrona che scotta rimane quella vacante. Quel nome le cancellerie mondiali lo aspettano con ansia.
Per una ragione molto semplice: sarà con quella persona che dovranno in futuro trattare, e vista l’evidente superficialità trumpiana, poco propensa all’approfondimento, sarà proprio il nuovo Segretario di Stato a tradurre in politiche concrete e coerenti le confuse idee del presidente eletto sul ruolo degli Stati Uniti nel mondo.
Tanto più dopo le rumorose polemiche scatenate nei giorni scorsi dalla telefonata di Trump alla leader di Taiwan Tsai Ing-wen.
È la prima volta dal 1979 che gli USA riprendono i contatti (seppur in modo ancora abbozzato) con l’isola, facendo infuriare i cinesi, e a differenza di quanto sostenuto da alcuni media, quella chiamata non era una gaffe. Al contrario, potrebbe rivelare un cambio di rotta ambizioso nella politica estera americana, parallelo a un riavvicinamento con la Russia. Dopotutto, anche se The Donald non è certo un fine stratega, sembra voler assumere in futuro un atteggiamento competitivo con la Cina, soprattutto sul piano economico, mentre è stato fino a ora amichevole con Mosca, in vista di una più stretta collaborazione sul fronte siriano.
Ma per tradurre questi vaghi programmi in fatti ci vorrebbe una mente brillante alla Segreteria di Stato, in grado di mettere in campo una manovra simile a quella attuata da Kissinger nei primi anni ’70 (solo questa volta a parti invertite tra Russia e Cina).
Fantapolitica? Staremo a vedere. Intanto, secondo le indiscrezioni, a rimanere in pole position nella lista dei candidati ci sono Mitt Romney, il fedelissimo Rudy Giuliani, Rex Tillerson, amministratore delegato della multinazionale dell’energia Exxon Corporation, e poi ancora il falco neoconservatore John R. Bolton (ex ambasciatore all’ONU durante la presidenza Bush) e infine l’ex generale e direttore della CIA David Petraeus.
A gravitare intorno al tycoon sono anche altre personalità, sicuramente meno note, ma ugualmente scrutinate in queste ore dal suo staff (come per esempio il senatore del Tennessee Bob Corker o l’ex generale John F. Kelly).
Tuttavia, sono i primi cinque nomi a far discutere maggiormente la stampa. Ed è su di loro che sembra esserci un aspro confronto tra i più stretti collaboratori di Trump. Su Mitt Romney, in particolare, si è fatta sentire l’opposizione della campaign manager Kellyanne Conway, che ha messo in dubbio la futura lealtà del mormone ex candidato alla presidenza nel 2012.
Prima di finire tra i papabili per l’ambito ruolo di capo della diplomazia, infatti, durante le primarie repubblicane Mitt ha ricoperto di insulti il tycoon diventando uno dei portabandiera del movimento dei “Never-Trump”, ovvero del gruppo di conservatori che fino all’ultimo si sono opposti al magnate.
Nel caso di Petraeus, invece, ci sarebbe un inconveniente formale: l’ex generale, noto per i successi conseguiti in Iraq, ha sulle spalle una recente condanna per aver diffuso in modo improprio materiale classificato alla sua biografa quando era a capo della CIA. Nonostante l’imperdonabile errore commesso, però, si tratta di un uomo di grande esperienza, a suo tempo lodato da democratici e repubblicani, e senza dubbio all’altezza del gravoso compito.
Tutto il contrario di Giuliani, al quale è rimproverata proprio l’inesperienza in politica estera.
Il nome di Bolton, poi, non tranquillizza nessuno: l’ex ambasciatore USA alle Nazioni Unite è stato infatti uno dei più agguerriti neoconservatori durante l’era di Geroge W. Bush, esponente di una visione che ha portato immani disastri in Medio Oriente.
Rex Tillerson, infine, pare essere tra i finalisti più per i suoi stretti legami d’affari con i russi che per le sue doti politiche. Trump lo ha appena incontrato a New York, ma i dettagli del meeting non sono noti.
Insomma, anche se in questo momento è impossibile fare previsioni, è difficile che il presidente eletto si discosti dalla rosa dei candidati appena citati.
Nel corso della settimana, forse per distrarsi dalle incombenze relative alle nomine, il tycoon sarà impegnato in un secondo “thank you tour” (un’altra stramba invenzione trumpiana) in North Carolina, Iowa e Michigan per ringraziare gli elettori di quegli stati, rivelatisi fondamentali per la vittoria di novembre.
E chissà se l’atteso annuncio avverrà proprio in occasione di uno dei comizi.