Giovedì negli Stati Uniti si celebrava Thanksgiving, la più americana delle festività. E mentre nelle cucine fervevano i preparativi per il tradizionale pranzo a base di tacchino, il presidente eletto Donald J. Trump ha approfittato dell’occasione per lanciare un breve messaggio all’America in festa. “Le tensioni non guariscono da un giorno all’altro” ha affermato guardando dritto in camera, aggiungendo che “abbiamo l’occasione per per scrivere la storia insieme e portare il vero cambiamento a Washington, reale sicurezza nelle nostre città, reale prosperità nelle nostre comunità […] ma per avere successo, dobbiamo indirizzare gli sforzi dell’intera nazione”.
Insomma un tipico discorso festivo che giunge a due settimane dall’election day, nel mezzo del processo con cui il tycoon muove i primi importanti passi politici designando alcuni personaggi chiave della sua nuova amministrazione.
Ed è proprio dai nomi resi noti in questi giorni, i quali dovranno essere in seguito confermati dal Senato, che stiamo cominciando a scorgere la linea politica del futuro governo che guiderà gli USA per i prossimi quattro anni. Dimmi chi nomini e ti dirò chi sei, potremmo affermare riferiti a Trump. Ma qual è stata la tattica politica espressa fino a ora nelle nomine? E su chi è ricaduta la preferenza del presidente eletto?
Già dai primi nomi The Donald sembra giocare su due piani: per un verso, infatti, farà entrare nel cuore della Casa Bianca col ruolo di chief strategist Steve Bannon, ex braccio destro della sua campagna elettorale e direttore del controverso giornale Breitbart, piattaforma del cosiddetto movimento dell’alt-right, che nel corso del tempo ha dato voce a razzisti d’ogni ordine e specie e a insane teorie cospiratorie.
La nomina di un white nationalist in un posto così importante ha scatenato ovviamente asprissime polemiche nel paese ed è considerata da molti la dimostrazione lampante del fatto che Trump non intende abbandonare l’estremismo della sua campagna elettorale.
In modo simile, la poltrona di Attorney General (ministro della giustizia) è finita al senatore dell’Alabama Jeff Sessions, noto per essere fortemente anti-immigrazione e per l’opposizione ad alcune leggi sui diritti civili.
Ma se Bannon e Sessions non rassicurano certo i moderati d’oltreoceano (e non solo) e le nomine del generale Michael Flynn a Consigliere alla sicurezza nazionale e di Ben Carson a Segretario della Casa e dello Sviluppo Urbano appaiono come ulteriori ricompense a due dei suoi più fedeli sostenitori, dall’altro lato il tycoon pare tendere una mano a una parte dell’estabilishment repubblicano per tenere a bada la dirigenza del partito.

Così, il capo del Republican National Commitee Reince Priebus è stato nominato Capo di Gabinetto, mentre per il posto di Segretario di Stato Trump è arrivato persino a considerare l’ex acerrimo nemico Mitt Romney. In quest’ultimo caso la poltrona è ambita dal fedelissimo “falco” Rudolph Giuliani, ma rimane ancora vacante. Il motivo sembra essere chiaro: la scelta dovrà ricadere su qualcuno gradito (o quantomeno non odiato) dal partito, in modo da evitare che il Senato ne possa poi respingere la candidatura.
A chiudere per ora il primo giro di nomine, infine, il presidente eletto ha scelto due donne: Betsy DeVos (imprenditrice, filantropa, ex presidente del Partito repubblicano in Michigan e favorevole a una maggiore privatizzazione delle scuole) per il ruolo di Secretary of Education (ministro dell’istruzione), e la governatrice di origini indiane della South Carolina Nikki Haley, giovane promessa del GOP e durante le primarie fiera oppositrice di Trump, designata come Ambasciatrice all’ONU.
Haley, che in questi giorni pareva in lizza per Segretario di Stato, sarà dunque la quarta donna di fila a ricoprire tale incarico, dopo Susan Rice, Rosemary Di Carlo e Samantha Power.
Insomma, il “camaleonte Trump”, in questo aiutato dallo scaltro genero Jared Kushner, si muove tirando fuori nomi di impresentabili come quello di Bannon e personaggi “nella norma” dell’apparato di partito. E tra una nomina e l’altra trova anche il tempo di ingaggiare inutili e dannose “twitter wars” contro attori come Alec Baldwin o il cast di Hamilton (sic!), mandando al contempo messaggi conciliatori su altri temi (come traspare nell’intervista con i vertici del New York Times).
Che sia tutta una tattica per confondere le acque e ottenere alla fine ciò che vuole? Per rispondere bisogna ancora aspettare.