Speravamo di descrivervi un duro incontro di boxe, invece siamo costretti a raccontarvi con grande sconforto una sordida lotta nel fango. È questo il modo migliore per definire il dibattito “presidenziale” andato in scena domenica sera alla Washington University di Saint Louis tra Hillary Clinton e Donald J. Trump.
E date le premesse, c’era da aspettarselo. Poco prima l’inizio del confronto era infatti già chiaro come non ci fosse posto per il tradizionale fair play di solito sfoggiato in occasioni del genere dai candidati alla presidenza della storia americana recente.
Dopo 48 ore di assedio mediatico per lo scandalo suscitato da una vecchia registrazione pubblicata dal Washington Post (in cui Trump si lascia andare a volgari e a tratti anche criminali commenti a sfondo sessuale) il tycoon newyorkese ha sorpreso tutti con un “attacco preventivo”, convocando una breve conferenza stampa a sole due ore dall’inizio del dibattito in compagnia di tre donne che in passato hanno accusato Bill Clinton di molestie – Paula Jones, Juanita Broaddrick e Kathleen Willey – le quali hanno descritto l’ex presidente come un violentatore raccontando di aver subìto pesanti minacce anche da parte di Hillary. Non bastasse, al gruppo si è aggiunta tale Kathy Shelton, violentata nel 1975 ad appena dodici anni da un uomo a suo tempo difeso in tribunale dall’allora avvocatessa Clinton.
Un colpo basso fuori dagli schemi. Ma è solo l’antipasto di ciò che accadrà dopo, perché Trump arriva a portare queste donne tra il pubblico del dibattito, a pochi metri da Bill e Chelsea Clinton (all’evento sono ovviamente presenti anche la moglie del magnate Melania e la figlia Ivanka).
Annunciati dai moderatori Martha Raddatz di ABC News e Anderson Cooper di CNN, i candidati entrano nell’arena senza nemmeno stringersi la mano (lo faranno solo alla fine), e per i primi trenta minuti il dibattito è monopolizzato dall’ultimo scandalo sessista. Svincolandosi dal contenuto del video che lo ha visto protagonista Trump calca subito la mano: “Le mie erano parole, quelli di Bill Clinton erano atti” afferma, riesumando le accuse di molestie contro l’ex presidente e recitando la solita litania del paese a pezzi, rovinato da politici incapaci e in preda a minacce ben più importanti delle sue intemperanze con le donne.
Hillary è visibilmente tesa, ma riesce comunque a rispondere citando le parole pronunciate da Michelle Obama durante la convention democratica di quest’estate: “quando loro volano basso, noi voliamo alto” replica, ricordando al pubblico il linguaggio inaccettabile di Donald Trump, tirando in ballo i numerosi insulti che hanno caratterizzato la retorica del tycoon e dipingendolo come la negazione stessa dei “buoni” valori americani, mentre l’avversario la bersaglia sulla questione delle migliaia di mail “sciolte nell’acido” (parole sue) durante l’indagine dell’FBI che ha coinvolto la democratica.
Tra accuse e colpi bassi il cronometro segna quasi la mezz’ora, ma di contenuti politici veri, quelli che interessano direttamente i cittadini, non c’è traccia. È a questo punto che Trump trascina la rivale nel fango, toccando il punto più basso dell’intero dibattito e minacciando di assumere, in caso di vittoria, un procuratore speciale incaricato di indagare sulla situazione della Clinton e invocandone addirittura l’arresto. Sono frasi gravissime, degne di un autocrate di un paese sottosviluppato più che di un uomo candidato a guidare la prima democrazia mondiale.
Nella seconda parte del confronto, rispondendo alle domande poste dal pubblico e dai moderatori, lo schema riproposto da Clinton e Trump è nei contenuti molto simile a quello che abbiamo osservato nel primo dibattito alla Hofstra University. A differenza di due settimane fa, però, The Donald mantiene la calma, si aggira a passi lenti con lo sguardo accigliato e non si cura di interagire con l’audience portando la discussione dove vuole lui. In più frangenti il tycoon dimostra per l’ennesima volta la sua totale impreparazione politica esprimendosi in modo inesatto e sommario ma riesce stavolta mascherare le lacune agli occhi del telespettatore medio, mentre la ex first lady, quando non è obbligata a difendersi dalle bordate del rivale, cerca di essere più specifica andando nel merito delle materie trattate.
Emergono così posizioni opposte su alcuni temi cruciali. Interrogata sulle criticità della riforma sanitaria di Obama, Hillary ne elenca i risultati positivi e dichiara di non volerla abolire per evitare lo strapotere delle compagnie assicurative, mentre Trump la demolisce senza se e senza ma, rammentando come anche Bill Clinton l’abbia criticata, battendo per una liberalizzazione totale della sanità e proponendo come alternativa “qualcosa di più efficiente e meno caro”, senza però nemmeno abbozzare il contenuto di una possibile alternativa.
Sul rischio di una deriva islamofobica negli USA e sui rifugiati il repubblicano ripropone le sue dure idee sull’immigrazione, mentre Hillary si scaglia contro la retorica anti islam di Trump, usata come mezzo propagandistico dall’ISIS per fomentare una pericolosa guerra di religione.
Quando si passa alla situazione siriana, invece, la ex Segretario di Stato fa la voce grossa contro la Russia proponendo una no fly zone ed esponendosi a uno dei pochi attacchi sensati di Trump. Smentendo clamorosamente le posizioni del proprio running mate Mike Pence, infatti, il tycoon contesta l’efficacia della strategia dell’amministrazione Obama in Medio Oriente, la quale secondo lui preferisce detronizzare Assad piuttosto che distruggere l’ISIS, attraverso il finanziamento di gruppi ribelli dalla dubbia natura.
Tralasciando gli insulti personali e concentrandoci sul merito affiorano ulteriori differenze di programma: sulle future nomine della Corte Suprema, per esempio, Trump è pronto a scegliere giudici ultraconsevatori simili al defunto Antonin Scalia e Clinton è al contrario interessata (a parole) a personaggi in grado di riformare le decisioni sul finanziamento politico e a mantenere le attuali sentenze su materie come l’aborto. Anche sulle politiche energetiche c’è un indubbio solco tra lo stravagante newyorkese e la ex first lady, con la seconda decisamente propensa alle energie rinnovabili e il primo restìo ad abbandonare il carbone, per favorire un ritorno economico immediato in termini di occupazione.
Ma alla luce di ciò, chi ha prevalso tra i due contendenti alla fine? La risposta va data in relazione agli obiettivi che entrambi si erano posti prima dello scontro. Lo scopo di Trump, partito in posizione nettamente sfavorevole, era evitare un’altra disfatta, viceversa Hillary aveva il fine di allungare il vantaggio sul proprio avversario.
Da questo punto di vista è stato forse Trump ad avvicinarsi maggiormente allo scopo anche se la sua performance, adatta a galvanizzare la parte più dura della propria base, non sarà tale da permettergli un allargamento dei consensi (soprattutto rispetto all’elettorato femminile). Hillary ha invece “mantenuto le posizioni”, ma ha perso l’occasione di mettere la parola fine alla campagna, che rimarrà incerta fino all’ultimo (un commentatore della CNN pro-Hillary ha ipotizzato che la ex First Lady lo abbia forse fatto apposta a non dare il KO finale a Trump, per evitare che ritirandosi fosse sostituito da Pence a questo punto più competitivo).
Come al solito saranno i prossimi sondaggi a darci certezze sull’esito concreto del duello. Di un fatto possiamo però esser sicuri: lascerà un pessimo ricordo nei decenni a venire.