A stare appresso alle cronache di quest’estate la corsa di Hillary Clinton verso la Casa Bianca si era trasformata in una passeggiata di salute. Nell’ultimo mese Donald Trump non ne ha azzeccata una e in molti credevano che il suo suicidio politico fosse quasi scontato. Eppure, quando meno te lo aspetti, in queste anomale elezioni spunta sempre un imprevisto. E nella settimana appena trascorsa, su Hillary si è abbattuta una bufera in grado di minare pesantemente la sua campagna elettorale.
A turbare i sonni della candidata democratica sono state due imbarazzanti rivelazioni venute fuori lunedì e che riguardano, ancora una volta, la sua corrispondenza quando era Segretario di Stato e i rapporti con la Clinton Foundation, l’organizzazione a scopo benefico fondata dal marito. Una saga infinita, quella dell’emailgate, che se a luglio aveva portato alla mancata incriminazione di Hillary da parte dell’FBI (pur tra mille rimproveri non smette di offuscare l’immagine della candidata democratica.
Ma di che si tratta questa volta? L’osservatorio di stampo conservatore Judicial Watch ha pubblicato 725 pagine di corrispondenza nelle quali, attraverso i dialoghi tra la Clinton e i suoi più stretti collaboratori al Dipartimento di Stato, emerge lo stretto legame tra Hillary e alcuni dei grandi donatori della Fondazione, che finivano in molti casi per incontrare il Segretario di Stato al di fuori dei canali istituzionali. In altri termini star, magnati e rappresentanti di paesi stranieri che contribuivano con grosse somme di denaro alla Clinton Foundation potevano sperare in un “accesso privilegiato” sfruttando tale corsia preferenziale nei loro rapporti con il capo della diplomazia americana. Secondo un’indagine pubblicata dall’Associated Press, tra tutti i privati (esclusi dunque i rappresentanti esteri) che incontrarono Hillary nel periodo in cui era a capo del Dipartimento di Stato, più della metà avevano donato alla Fondazione. Un numero che l’agenzia di stampa ha definito “di proporzioni straordinarie” e che “potrebbe indicare un possibile problema etico” di una futura presidenza Clinton.

Da qui a dimostrare che i donors potessero influenzare la politica estera a stelle e strisce (come fanno in malafede i media conservatori) ce ne passa, e formalmente, fino a ora, non c’è nulla di penalmente rilevante.
Ma non è finita qui. Sempre lunedì, l’FBI ha annunciato l’esistenza di quasi 15.000 email trovate durante le indagini svolte quest’estate ma di cui il Dipartimento di Stato non era a conoscenza, e un giudice federale ha ordinato che siano rese pubbliche (se attinenti alla sfera lavorativa e non personale) entro il 13 settembre, ad appena due settimane dal primo attesissimo duello televisivo con Trump.
Infine, la ciliegina sulla torta l’ha messa Julian Assange, fondatore-leader di Wikileaks, il quale in una recente intervista ha rivelato di essere in possesso di “migliaia di pagine di materiale” (mail tanto per cambiare), collegate alla campagna elettorale di Hillary, descritte come “rilevanti” e che ha intenzione di pubblicare entro l’8 novembre.
Secondo un copione già noto, dunque, la candidata democratica è costretta a chiarire, rettificare o addirittura smentire dichiarazioni espresse in passato, confondendo le acque e tirando in ballo a sproposito personaggi come l’ex Segretario di Stato Colin Powell per giustificarsi. E il pasticcio combinato a suo tempo con l’anomala installazione di un server privato nella sua abitazione sembra essere stato un rischioso espediente per nascondere tale imbarazzante conflitto di interessi.
Dal canto suo, Donald Trump non è nelle condizioni di sfruttare a pieno le debolezze dell’avversaria, e pur attaccando la Clinton in maniera incessante su tutto (comprese le mail) sembra ancora in caduta libera.
Dopo aver eliminato Paul Manafort (il quale aveva tentato invano di condurre una campagna elettorale disciplinata) ultimamente il magnate ha infatti rivoluzionato il proprio staff, circondandosi da una pletora di personaggi legati alle frange più estreme dell’universo conservatore e virando decisamente verso destra.

A sostituire Manafort come campaign manager è stata la sondaggista Kellyanne Conway, mentre Stephen K. Bannon, direttore del controverso sito di “notizie” Breitbart (noto per la diffusione di teorie complottiste prive di qualsiasi fondamento) ha assunto il ruolo di chief executive. Un nuovo consulente di The Donald è poi Roger Ailes, ex storico amministratore delegato di Fox News letteralmente “cacciato” perché travolto da una serie di accuse di “sexual harassment” sul lavoro, mentre personaggi come il presentatore Sean Hannity sembrano essersi stranamente avvicinati al magnate.
Per i più maliziosi, la massiccia presenza di personalità mediatiche sarebbe il sintomo di una sorta di “piano B” messo in atto dal tycoon, che di fronte a una ormai inevitabile batosta a novembre starebbe costruendo un team per fondare in futuro un suo network di informazione. A Trump basterebbe conquistare qualche milione di telespettatori sfruttando la pubblicità delle presidenziali per far cassa, trasformando un’umiliazione politica in un successo imprenditoriale.
Illazioni a parte, però, una cosa è certa: nell’ultimo mese le sparate di Trump sembrano rivolte a una nicchia “estrema” di sostenitori più che alla maggioranza dell’elettorato americano. E anche se negli ultimi giorni The Donald ha mitigato le posizioni sull’immigrazione, suggerendo un piano “umano” nel trattamento degli immigrati irregolari e facendo capire di essere disponibile a un approccio più moderato a tale questione, i suoi tentativi per guadagnare il favore delle minoranze (presso le quali il suo gradimento ha percentuali ridicole) sono ancora goffi e poco credibili: manca insomma un piano efficace, che bisognerà elaborare in fretta per ottenere risultati concreti.
Insomma, se l’avversario della Clinton fosse un “candidato normale” e non un personaggio da reality show con seri problemi comportamentali, l’elezione di Hillary sarebbe seriamente compromessa, ma la natura di Trump rende tutto più facile per la ex first lady.
Così, con l’aiuto dei maggiori media mainstream schierati nettamente a suo favore, la Clinton può dirottare l’attenzione sulle intemperanze del tycoon, spostando su di lui il fuoco mediatico.
Una strategia che la candidata democratica ha attuato in modo efficace giovedì, quando in un suo discorso tenuto a Reno, Nevada, Hillary ha tentato di isolare The Donald lanciando una durissima offensiva. “Dall’inizio, Donald Trump ha costruito una campagna sul pregiudizio e sulla paranoia […] sta permettendo a una frangia radicale di conquistare il partito repubblicano” ha affermato senza mezzi termini la Clinton, tracciando una linea netta tra i conservatori tradizionali e l’estremismo trumpiano, vicino agli ambienti della cosiddetta “alternative right”, una corrente amorfa la cui retorica è alimentata da pubblicazioni online di dubbia attendibilità, come il National Enquirer o appunto Breitbart. “Un uomo con una lunga storia di discriminazione razziale, che traffica con oscure teorie complottiste prese dalle pagine di scadenti tabloid e dai reconditi, oscuri meandri di internet non dovrebbe mai essere a capo del nostro governo o avere il comando delle nostre forze armate” ha aggiunto, ricordando come “Trump ha acquisito in passato notorietà politica guidando il cosiddetto movimento dei birthers. Ha promosso la bugia razzista che il Presidente Obama non fosse davvero un cittadino americano rendendola parte di un piano deliberato per delegittimare il primo presidente nero d’America”.
Nel suo attacco, il più duro dall’inizio della campagna elettorale, Hillary ha inoltre rievocato alcune delle sparate del suo avversario, da quella secondo cui il padre di Ted Cruz sarebbe stato coinvolto nell’omicidio di Kennedy (fatta durante le primarie repubblicane) a quella con cui il tycoon ha esplicitamente accusato Obama di essere il fondatore dell’ISIS, mettendo in evidenza come gruppi razzisti (primo fra tutti il Ku Klux Klan) appoggino senza mezzi termini il magnate.
Nel far ciò, come hanno notato alcuni, Hillary ricalca la tattica utilizzata da Lyndon Johnson contro Barry Goldwater nel 1964, quando il candidato democratico utilizzò le simpatie di Goldwater per la Birch Society (una controversa organizzazione conservatrice che propugnava teorie sul “complotto comunista mondiale”, accusando persino gente come Eisenhower di esserne parte) per dipingerlo come un pericoloso estremista.
In fin dei conti, ponendolo al di fuori di quello che in Italia chiameremmo “arco costituzionale”, l’obiettivo di Hillary è lampante: rendere le elezioni un referendum su Trump.