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June 7, 2015
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June 7, 2015
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Senza più hope per Obama e chissà quant’altre cose turche

James HansenbyJames Hansen
Shepard Fairey (Foto Ap)

Shepard Fairey (Foto Ap)

Time: 3 mins read

Peccato per Obama — Shepard Fairey, l’artista “da strada” che ha creato una delle opere più note della propaganda politica dei tempi moderni—il poster di Barack Obama con sotto la didascalica parola “hope” (speranza)—ha dichiarato in una recente intervista di avere perso ogni speranza nell’uomo che ha aiutato a diventare Presidente degli Usa nel 2008. Chiesto se Obama aveva corrisposto a quella hope che inizialmente ispirava, Fairey ha risposto semplicemente: “Per niente”.

Gli europei spesso non hanno molto chiaro quanto è diventato impopolare Barack Obama nel suo Paese—forse soprattutto, senza scendere nei particolari, perché l’operato alla presidenza ha regolarmente deluso le (troppe) speranze che il suo avvento aveva suscitato.

Ovviamente i dati variano a seconda della fonte, ma per la Gallup—che ha sostanzialmente inventato l’indice di “approvazione presidenziale” —l’approval index medio di Barack Obama tra gli americani nei suoi primi sei anni di presidenza è stato del 47%, marcatamente inferiore a quelli di due presidenti largamente detestati come George W. Bush (49,4%) e Richard Nixon (49,1%). Ricordate che l’indice è una media. I presidenti Usa tendono a essere inizialmente popolari per poi cadere dal cuore dell’elettorato col passare del tempo.

Molti americani riconoscono che il compito era improbo, che Obama ha tentato di fare ciò che poteva—ma ritengono che questo sia risultato essere troppo poco, specialmente per uno eletto con il muscoloso slogan “yes we can”— “noi possiamo”. E’ la tragedia del demiurgo.

Il fenomeno pone un problema anche al candidato democratico per la successione—presumibilmente Hillary Clinton. Lei affronta l’ostacolo di essere stimata ma non amata, e infatti non è amabile. Ora, non potrà nemmeno appellarsi alle “cose buone” fatte dal suo partito nel corso dell’amministrazione uscente—di cui, del resto, ha fatto parte anche lei.

 

La Turchia e la tavoletta d’oro — Secondo quanto riferito dall’agenzia Reuters, il Presidente turco, Tayyip Erdoğan, avrebbe promesso di dimettersi se i suoi oppositori fossero riusciti a trovare una tavoletta d’oro su uno dei suoi moltissimi water.

I politici promettono molte cose, ma l’insolita reazione del neo-sultano è un tentativo di respingere le critiche al suo stile di vita a dir poco “imperiale” in vista delle elezioni parlamentari turche che si svolgeranno il 7 giugno.

Erdoğan ha traslocato nel suo nuovo palazzo presidenziale—letteralmente dalle mille stanze—dopo il notevole successo elettorale dell’agosto scorso. L’immensa struttura, illuminata da potenti fari di notte, è popolarmente conosciuta come Ak Saray: il Palazzo Bianco. Domina tutta Ankara dalla cima di una collina al margine occidentale della capitale.

I suoi predecessori s’accontentavano di molto meno, ma del resto non pretendevano di essere i rifondatori della Turchia neo-ottomana, con tutta la necessaria gloria che ciò implica.

Il Presidente turco ambisce a un successo elettorale nella tornata di domenica tale da permettere al suo partito—l’AKP, acronimo turco del “Partito per la Giustizia e lo Sviluppo”—di acquisire una maggioranza sufficiente per emendare la Costituzione in senso ancora più presidenziale e autocratico. I sondaggi suggeriscono che sarà difficile, ma gli ultimi tempi sono stati duri per i sondaggisti un po’ ovunque—a partire dalle disastrose previsioni in Israele, in Polonia e, ultimamente, in Inghilterra.

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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