Il professor Rosario Bentivegna, medico del lavoro, non ha perso la grinta, il piglio dell’uomo d’azione neanche oggi che è prossimo ai novanta anni, sorride quando ricorda di essere nato a Roma il ventidue giugno dell’anno in cui Mussolini e i fascisti marciarono sulla città, segnando le sorti dell’Italia e degli Italiani per un ventennio di cancellazione dei diritti e delle libertà. Questo è il tempo della memoria per “Paolo”, il vicecomandante della resistenza armata della capitale per la quarta zona, quella dei monti Prenestini, e poi comandante del gruppo di azione patriottica Pisacane, sulla cui cattura i nazifascisti avevano posto più volte, all’indomani dell’otto settembre del ’43, durante i mesi tragici dell’occupazione tedesca, taglie assai cospicue, un milione e ottocentocinquanta mila lire, che fortunatamente non valsero il tradimento di alcuno.
Coadiuvato dalla storica Michela Ponzani, Bentivegna ha pubblicato lo scorso settembre, presso Einaudi, «Senza fare di necessità virtù», un vero e proprio saggio storico, non semplici ricordi, nell’intento di sottoporre il racconto della sua vita alla prova documentale, verificando negli archivi storici fatti e dati. Il titolo del libro allude alle scelte, compiute dall’autore, sempre a sostegno di libertà e democrazia, contro ogni forma di autoritarismo, di tirannia, di bonapartismo, sia esso fascista, stalinista, religioso o nazionalista, come egli ha sottolineato più volte, durante il nostro incontro. Lo spirito libertario gli deriva forse dal ramo paterno, suo padre proveniva da una famiglia di nobili siciliani, combattenti garibaldini, impegnati nelle lotte risorgimentali, diversamente sua madre apparteneva ad una famiglia del “generone” romano, possidenti fondiari, il cui patrimonio trasse vantaggio dal processo unitario.
Scrive Rosario: «I ragazzini della mia generazione vennero educati all’uso delle armi e della violenza in un costante clima di esaltazione: ci veniva raccontato che le armate italiane erano riuscite, praticamente da sole, a sconfiggere a Vittorio Veneto l’impero austroungarico, ma la retorica nazionalista era ben diversa dalla realtà». Orgoglioso di essere un balilla moschettiere, la sua fede è destinata ad infrangersi al cospetto di una situazione di corruzione e clientelismo diffuso, in una società rigidamente divisa in classi, dove i contadini e gli operai non contano nulla.
E’ dalla lettura di Mazzini che Bentivegna apprende il concetto di patria nel quale si riconosce, la patria che non è un territorio, ma il luogo in cui difendere la propria libertà, farla crescere, fino al punto di «battersi contro di essa se questa ne opprime altre». Rosario diviene antifascista perentoriamente con la guerra di Spagna del ’36 e la promulgazione in Italia delle leggi razziali nel ’38, che segnarono l’alleanza tra Mussolini e Hitler, inspiegabile in un clima dettato dalla propaganda antigermanica e antiaustriaca nelle scuole. Nel ’41 avviene un fatto di cui quasi nessuno è a conoscenza, l’occupazione dell’Università di Roma, ad opera dei gruppi studenteschi, a seguito della quale Bentivegna viene arrestato, a lungo interrogato e rilasciato con diffida di polizia, cominciava, in tal modo a prendere corpo una perdita di consenso al regime, espressa anche dalla scelta di non prestare giuramento alle armi, rifiutando l’arruolamento come volontari universitari.
Della Resistenza romana poco o nulla si è scritto, una storiografia assente o distratta ha lasciato nell’ombra pagine di storia significative per la democrazia, per i valori etici e sociali di sempre. Perché questa omissione?
«Per le stesse ragioni per le quali è assente dai libri scolastici, dalla storiografia contem-poranea, la Repubblica Romana, in ogni città italiana c’è Piazza delle Cinque Giornate, ma non c’è nemmeno una piazza intitolata alla Repubblica Romana che è durata otto mesi, mentre la Cinque Giornate di Milano si sono svolte in cinque giorni. E’ innegabile un odio per Roma, da parte di certi settori».
Subito dopo l’armistizio dell’otto settembre Roma si mobilitò per organizzare la Resistenza?
«C’è una premessa da fare: prima che il governo partisse, i partiti erano proibiti ancora, però esistevano e il governo lo sapeva, trattavano; c’era un comitato clandestino dei partiti antifascisti, composto dal Partito Comunista, dalla Democrazia Cristiana, il Partito d’Azione, il partito Socialista, il Partito Democratico del Lavoro, il Partito Liberale. Questo comitato antifascista, che poi il nove settembre si trasformò in Comitato di Liberazione Nazionale, operava clandestinamente nella Roma pre otto settembre ed è successo che, qualche giorno prima della fine del conflitto, quando già erano in corso le trattative con gli alleati per la firma dell’armistizio di Cassibile, firmato il tre settembre e reso noto dopo cinque giorni, alla fine di agosto il generale Carboni prese contatto con il mio partito, il partito comunista, e consegnò a Luigi Longo, Antonello Trombadori e Roberto Forti, tre camion carichi di armi individuali, dicendo loro che altre armi, ove servissero, le avremmo trovate all’Ottantunesimo Fanteria che era in Via Giulio Cesare, ma un capitano fascista si impossessò della caserma e, quando andammo, ci spararono contro.Quello fu l’unico luogo di resistenza dei fascisti dentro la città, ma a Roma alla fine Kesserling propose l’armistizio, poiché dal nord gli aiuti promessi tardavano ad arrivare, erano stati bloccati, questa è una cosa che nessuno sa, che furono i tedeschi a proporre l’armistizio, indicando per Roma la qualifica non di “città aperta”, poiché erano presenti strutture militari, compresa l’antiaerea, e dunque non poteva essere aperta, ma di “città libera”, presidiata dalle parti regolari del Regio Esercito. I tedeschi non sarebbero entrati a Roma e chiedevano per sé solo il controllo della loro Ambasciata, delle strutture radiofoniche e telefoniche che erano importanti dal punto di vista militare».
Un'immagine del rastrellamento davanti Piazza Barberini, dopo l'attacco di via Rasella
In quale contesto venne messa a punto l’azione partigiana di Via Rasella del ventitré marzo del ’44?
«Fu un contesto di città resistente, riconosciuta come tale anche da uno storico non di sinistra quale Renzo De Felice, che definì Roma l’unica città in Italia che ha resistito contro l’occupazione nazista, tanto è vero che i nazisti a Roma non sono entrati. Non si è combattuto solo a Porta S. Paolo, Kesserling nelle sue memorie ricorda che i rinforzi e cioè la Divisione “Student”, una delle più grosse divisioni tedesche di paracadutisti motocorazzati, erano stati fermati a venti chilometri a nord di Roma, dal Terzo Reggimento Granatieri e dalla popolazione di Monterotondo che si era rivoltata; anche a Ladispoli e tutto intorno a Roma c’è stata una resistenza che i tedeschi non riuscirono a fronteggiare. Inoltre la solidarietà dimostrata dalla popolazione civile alle formazioni partigiane, dimostra quanto la città sia stata una città resistente. Via Rasella fu un’azione di guerra partigiana compiuta in un determinato contesto storico, in una città da molti mesi in sofferenza per la brutalità delle forze di occupazione, non fu certo un atto terroristico isolato. Il ventitré marzo alle 15:52 io ho acceso la miccia, eravamo in undici, tutti compagni dei Gap, il comandante era Franco Calamandrei, il ventitré perché era l’anniversario dei Fasci di Combattimento, questa colonna passava tutti i giorni, era un reparto di SS, l’undicesima compagnia, III battaglione dell’SS Polizei Regiment Bozen, centosessanta uomini armati fino ai denti, con le bombe a mano».
Come fu condotto l’attacco?
«L’attacco fu condotto da due posizioni, una che era la mia, diciotto chili di tritolo messo dentro un carrettino da spazzino che esplose dopo cinquanta secondi dall’accensione, poco sotto, in via del Boccaccio un’altra pattuglia di quattro compagni aveva delle bombe da mortaio modificate a bombe a mano, con una tecnica usata dai nostri artificieri, che, dopo l’esplosione del carrettino, sarebbe stata lanciata sul reparto, il quale, secondo i nostri calcoli, doveva per intero essere sdraiato a terra e così avvenne. L’esplosivo fu fornito dal Fronte Militare clandestino».
All’azione partigiana di Via Rasella fece seguito, dal dopoguerra, una lunga vicenda processuale, conclusasi pochi anni fa. Quale significato sottende una simile azione?
«Nel ’49 ebbe inizio la vicenda processuale per l’azione di Via Rasella, furono diffuse tante calunnie e menzogne su quell’avvenimento e sulla strage delle Fosse Ardeatine, questo processo è l’emblema assoluto di quanto la Resistenza sia stata messa sotto accusa in termini di opinione pubblica e di senso comune e di quanto sia contestata la legittimità delle azioni di guerra partigiane, non solo da un punto di vista legale o giudiziario, ma anche da un punto di vista storico-morale.
A partire dagli anni Cinquanta ha inizio una sistematica campagna di repressione giudiziaria anti partigiana, sostenuta fortemente dalle forze politiche e moderate riunite intorno alla Democrazia Cristiana e anche con l’ausilio della stampa cattolica e di destra. Nel 2007 la Cassazione ha definitivamente affermato che Via Rasella fu un legittimo atto di guerra partigiana, era già intervenuta negli anni Cinquanta e poi si è sempre ripetuta, ponendo fine, si spera, a quel paradossale ribaltamento della realtà per cui i combattenti della Resistenza e gli oppositori del fascismo, ai quali si deve la liberazione del Paese e la rinascita democratica dell’Italia, vengono accusati di avere distrutto la Patria che i repubblichini di Salò avrebbero difeso».
Vorrei che rievocasse le ragioni per cui venne arrestato e processato dagli alleati, nel ’44.
«Mi scontrai, il giorno della Liberazione di Roma, con un tenente della Finanza che stava strappando i manifesti degli alleati, io lo fermai, lui mi sparò addosso, risposi al fuoco e lui ci rimise, gli americani mi processarono. Sono stato il primo processato dagli americani a Roma, prima di tutti i fascisti, avevo appena compiuto ventidue anni, il ventitré giugno fui arrestato e mi fecero il processo. Quando fui assolto, perché mi fu riconosciuta la legittima difesa, il comando alleato mi chiamò e mi propose di organizzare una struttura partigiana italiana per entrare nelle città prima di loro. Ma ne parlai con Togliatti e alla fine scelsi di raggiungere un altro fronte di guerra, fui mandato in Jugoslavia».
Lei nel libro più volte rivendica “l’etica della convinzione” alla base del suo agire politico rivoluzionario.
«Il riferimento costante rispetto all’etica della convinzione è il dramma umano che c’è dietro alla consapevolezza di agire sì per una giusta causa, facendo comunque uso di armi, praticando metodi violenti, poiché uccidere reca un dolore immenso, ineliminabile non solo nelle vittime, ma anche in chi ne è l’artefice. Io scrivo della nausea profonda prima e dopo ogni azione, del male che mi coglieva puntuale e devastante, eppure non mi sono mai tirato indietro, perché quello era il mio dovere e il mio desiderio, di contribuire a liberare il mio Paese dall’orrore nazista».
Secondo lei il berlusconismo, da cui l’Italia si è affrancata, presentava qualche analogia con il fascismo?
«No, il fascismo era più intelligente del miserabile populismo berlusconiano, pensi a quello che ha combinato il fascismo dal ’25 al ’35: la previdenza sociale; l’opera nazionale maternità e infanzia; la lotta contro la tubercolosi; le colonie per i bambini; i Carri di Tespi; il Dopolavoro, lo Stato Sociale funzionava in quei dieci anni, se solo Mussolini non si fosse fatto travolgere dalla voglia di diventare Giulio Cesare, tra l’altro non avendone neppure i mezzi, visto che è andato a fare la guerra con i moschetti del ’91!»