Certamente qualcuno invocherà la fatidica frase: “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darò la vita perché tu possa dirlo”. Bella affermazione attribuita a Voltaire, che tuttavia non si è mai sognato di pronunciare. Quel «I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it», se lo trova incollato perché la scrittrice Evelyn Beatrice Hall arbitrariamente gliela attribuisce. Ma prendiamola ugualmente per buona.
I maggiori social network hanno deciso di non ospitare più i “pensieri” dell’uscente presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Puntuale la polemica: censura; per quanto discutibili e riprovevoli, sostengono in tanti, le dichiarazioni dell’ormai ex inquilino della Casa Bianca non dovrebbero essere bloccate; e via dicendo.
Lodevole dichiarazione di tolleranza. Ma qui è il punto: a parte che la tolleranza è un qualcosa di discutibile, presuppone un “alto” che, appunto, benignamente “tollera” affermazioni, fatti, persone che sono in “basso”, inferiori (ben altra cosa il “rispetto”), perché si dovrebbe essere “tolleranti”?

Perché chiedere a twitter, facebook, agli altri social network di esserlo? Non esiste una legislazione in materia. Piaccia o no, sono territori e prateria senza legge; il “governo” è assicurato da regole elaborate dai creatori; possono risultare discutibili, ma nel momento in cui si decide di farne uso, liberamente le si accettano. Si tratta di “giganti” privati, non hanno alcun obbligo di “servizio pubblico” e pluralismo. Se lo sono è perché vogliono esserlo, ma sono anche liberi di no.
Per capirci: sono organizzazioni private? Affermativo.
Esistono norme regolatorie al di là di quelle che i suddetti si sono autonomamente dati? Negativo.
Possono, se vogliono, non pubblicare qualcosa? Affermativo.
Anche se non piace, lo possono fare? Affermativo.
E’ giusto o sbagliato che lo facciano? É irrilevante. Conta che possono farlo.
E’ già accaduto quello che è successo a Trump? Sì. Gli “utenti” possono essere sospesi per un periodo o per sempre. Quando si scopre che diffondono materiali pornografici, offensivi, razzisti. Del resto, non posso gridare in un cinema o in un teatro “Al fuoco”, se incendio non c’è, e rivendicare un mio diritto di espressione. Se scrivo una riedizione aggiornata dei “Protocolli dei savi di Sion” o mi abbandono a qualche delirio razzista, una casa editrice è liberissima di non pubblicarmi. Se prendo in mano una penna non per questo il direttore di un giornale è tenuto a pubblicare ogni mia corbelleria; e via dicendo. Un conto è la libertà di espressione, altro la licenza.
Indubbiamente è un criterio sottile, occorre prudenza, cautela, equilibrio. Ci si può chiedere quale sia il criterio; ma è un po’ come discutere quale sia il limite al di là del quale l’erotismo sconfina nella pornografia. Il confine è tenue, labile, quasi evanescente. A chi spetta, e perché, l’ultima, definitiva parola? Dibattito in cui si rischia un avvitamento nel quale ci si perde. Le posizioni radicali non portano da nessuna parte, in questo caso. Per tornare al caso Trump: non è grave che sia stato bloccato; grave, semmai che non lo siano altri come e peggiori di lui…
Infine: ora, come hanno sempre fatto, i titolari di questi social network possono rivendicare neutralità e irresponsabilità tecnica dei contenuti? Negativo. Ora non possono più rivendicarlo. Liberi di pubblicare o non pubblicare. Ma responsabili, non più neutrali. Al massimo arbitri. Fine dibattito.