Pensa che i giornalisti siano “artigiani delle parole”, e che, per svolgere questa professione ogni giorno, serva cura, precisione, inventiva, proprio come il lavoro di un artigiano. E lei “artigiana delle parole” lo è diventata grazie, afferma, alla sua “testa dura”, quella che, nonostante i consigli di chi le sconsigliava, anche saggiamente, di imbarcarsi in una professione tanto difficile di questi tempi, ha scelto di non arrendersi e l’ha portata ad essere accettata nella più prestigiosa scuola di giornalismo del pianeta, quella della Columbia University. Oggi, la 36enne chiantigiana Gaia Pianigiani, che domani premieremo all’Istituto di Cultura Italiano con la seconda edizione del “Liberty Meets Beauty” Media Award, lavora al New York Times come reporter da Roma, raccontando, per l’iconico giornale della Grande Mela, le ombre e le luci della nostra Italia, ma anche fenomeni storici e sociali complessi come le migrazioni nel Mediterraneo e la criminalità organizzata. Porta la sua firma anche il poderoso lavoro di ricostruzione della tragedia del ponte Morandi di Genova, che in Italia molti hanno ammirato come esempio di giornalismo accurato che sopravvive in tempi di disinformazione e faciloneria. Con Gaia abbiamo parlato del giornalismo di oggi e di domani, di libertà di stampa, dei suoi esordi e del significato del 25 aprile.
Quali sono le difficoltà più grandi che hai dovuto affrontare nella tua carriera da giornalista? Che cosa, invece, ti ha entusiasmata di più?
“La cosa che mi entusiasma di più nella mia carriera di giornalista è il contatto con le persone. Non c’è una situazione o un articolo particolari che mi ha colpito, ci sono stati tanti momenti. Certamente, quando abbiamo fatto la missione con la Guardia Costiera italiana nel 2013, e siamo andati nel Mediterraneo aperto a incrociare un barcone di migranti dalla guerra in Siria, è stato sicuramente un momento bello per la realtà umana molto forte che ho vissuto. In generale, tutti gli articoli che raccontano la vita delle persone, per me, sono i più belli; nello stesso tempo sono anche i più difficili. Penso che quando assorbi le emozioni delle persone che ti raccontano la loro storia porti sempre a casa qualcosa”.
Il New York Times è tra i giornali che sono riusciti a rilanciare il proprio business online con successo, ma, sia in Italia che negli Stati Uniti, sono tanti i casi di testate che hanno dovuto tagliare pesantemente il proprio organico e che faticano a rimanere a galla in un sistema editoriale in continua evoluzione. Sei ottimista o pessimista sul futuro del giornalismo, offline e online, nei prossimi decenni?
“Il New York Times è un giornale che, fortunatamente, è riuscito a traghettare con successo il proprio modello di business dal cartaceo al digitale, cosa che non è successa per altri giornali, anche se non è del tutto vero che questa transizione non sia stata costosa anche per noi: ci sono stati licenziamenti, c’è stato uno spostamento del modello di business da un corpo editoriale molto più sostanzioso a un investimento su risorse nuove, persone con altri tipi di capacità e di tecniche di produzione giornalistica. Anche per noi, insomma, è stato un passaggio un po’ cruento. Però, credo che indubbiamente l’investimento sull’online abbia aiutato anche il cartaceo. Io non credo che un giorno smetteremo di stampare i giornali – lo dico anche per predilezione personale, perché amo sfogliare il cartaceo –, ma mi rendo conto delle potenzialità e del peso dell’online, che guadagna di più, che ci permette di raggiungere un numero maggiore di persone in tutto il mondo e ci ha consentito di fare avere questa grande espansione nel numero di lettori. Credo e spero che il modello rimanga più o meno questo: e cioè un modello in cui l’online continua a nutrire il cartaceo, per cui se il lettore consulta il NYT appena dopo un certo avvenimento può leggere un primo resoconto, che poi si approfondisce fino a quando chiudiamo il giornale e diventa un pezzo più analitico e di maggiore profondità di informazione”.
Negli ultimi anni abbiamo conosciuto i rischi della disinformazione online, abbiamo visto il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump lanciare attacchi frontali ai media, definendoli “nemici del popolo”, seguito a ruota anche da alcuni rappresentanti del Governo italiano. Intanto, secondo Reporters Without Border, nel 2018 gli Stati Uniti sono precipitati al 45esimo posto nella classifica per libertà di stampa, mentre l’Italia è al 46esimo. Che cosa pensi, da reporter, dello stato della libertà di stampa di questi tempi? Pensi che l’informazione abbia delle responsabilità per la sfiducia crescente nei suoi confronti?
“Ci sono indubbiamente vari attacchi alla libertà di stampa, e c’è questa nuova tendenza, anche in Italia, di etichettare come “fake news” alcune delle notizie che vengono scoperte da alcuni giornalisti, che naturalmente possono anche sbagliare. Credo che in generale non sia tanto un problema dell’informazione in sé, ma soprattutto sia legato alla credibilità che i cosiddetti “esperti” hanno perduto. Inoltre, non credo abbia a che fare solo con i giornalisti e con gli esperti monologi, ma è qualcosa di più culturale, su cui si deve fare un lavoro ampio, un lavoro, appunto, culturale”.
Internet – ad esempio con piattaforme come Wikileaks di Julian Assange – e i social network hanno rivoluzionato il modo di comunicare e anche di fare informazione. Pensi sia un’evoluzione positiva o negativa per il giornalismo?
“Sicuramente, Internet ha trasformato il giornalismo. I social media e piattaforme come Wikileaks hanno dato un nuovo impulso e offerto un nuovo modello di raccolta delle informazioni. Non credo però che siano sovrapponibili al giornalismo; credo che dai social media e da piattaforme come Wikileaks si possano collezionare e elaborare molte informazioni utili, ma che quello non sia la verità e non sia il giornalismo. Il giornalismo fa un’altra cosa: e che lo facciamo facendo delle telefonate, incontrando delle persone, avendo delle fonti fisiche, o che lo facciamo verificando quello che si trova scritto sui vari mezzi di informazione su internet, non cambia molto dal punto di vista del giornalista, purché si faccia sempre quel lavoro di elaborazione, analisi, verifica e ragionamento su quelle che sono le cose che vengono dette e scritte usando i vari mezzi di comunicazione”.
È diffusa l’idea che giornalisti ci si possa improvvisare. Per un giornalista, quanto è importante, secondo la tua esperienza, avere una preparazione culturale ampia e rigorosa?
“Non credo ci si possa improvvisare giornalisti, perché ho un’idea della professione che è diametralmente opposta. Credo in realtà sia un lavoro da artigiani delle parole, quindi una formazione culturale ampia, di qualunque natura – da quella economico-finanziaria, a quella artistica o legale – sia la base per costruire un buon giornalista, che è un pensatore critico, è una persona che è in grado di recuperare le fonti più attendibili possibili e di analizzare quello che incontra e quello che trova. Credo che questa professione non sia per niente morta; ritengo sia una professione che ha subito grandi cambiamenti e che probabilmente ne subirà ancora”.
Tornando a te, quando hai capito che volevi diventare giornalista? La tua famiglia ti ha incoraggiata in questa tua scelta, o magari l’ha vissuta con preoccupazione?
“Ho capito di voler fare la giornalista durante il mio Erasmus a Berlino, quando stavo iniziando un percorso per prendere un dottorato in letteratura tedesca. La mia, insomma, non è stata proprio una vocazione da bambina. È stato un percorso relativamente breve, per me, fortunatamente, in cui la mia famiglia mi ha sempre incoraggiata, nonostante non avessi alcun contatto nel mondo del giornalismo italiano e tantomeno internazionale. Tuttavia, hanno sempre creduto che la mia testa dura non fosse facilmente convincibile. Quindi, mi hanno sempre aiutata economicamente, quando ne ho avuto bisogno, e mi hanno incoraggiata a seguire quelli che erano i miei sogni. Sicuramente sono stata allenata fin da piccola a credere nel grande valore del lavoro, dell’etica professionale, del faticare molto per arrivare a un risultato. Per cui, indipendentemente da quello che può essere stato un aiuto concreto, penso che questo sia stato il più grande contributo che la mia famiglia ha dato alla mia formazione e alla mia professione di oggi”.
In Italia, in questo momento, migliaia di giovani giornalisti vivono in condizioni di precariato, sono pesantemente sottopagati e molti di loro sono costretti ogni giorno a rinunciare al proprio sogno professionale per l’assenza di sbocchi e opportunità. Che consiglio daresti ai giovani che scelgono, nonostante tutto, di provare a fare questo mestiere?
“Il giornalismo italiano non sta vivendo un momento roseo della sua storia, e questo, penso, è noto a tutti. Ricevo molte e-mail e parlo con giornalisti italiani che sono all’inizio della loro carriera, che si chiedono che futuro ci sia. Sicuramente, non è un’industria in crescita, però, quando a me è stato detto che era una missione impossibile, che sarebbe stata l’idea più stupida della mia vita, non ho ascoltato nessuno, perché credevo che, in quel momento, quella fosse la mia missione, e il lavoro che era più nelle mie corde. Direi a loro di ascoltare le giuste preoccupazioni delle persone intorno a loro e anche i dati reali, e di trasformare tutto ciò in ciò che loro pensano possa diventare la loro vita”.
Come ti vedi, professionalmente parlando, da qui a 20 anni? Vorresti continuare a lavorare per un giornale anglosassone, oppure ti vedresti anche in una grande testata italiana?
“Da qui a 20 anni è una domanda difficile, ma credo mi piacerebbe scrivere in forma più lunga. Mi piacerebbe, cioè, poter dedicare più tempo e più attenzione a un progetto singolo: quindi magari un magazine, una rivista, una realtà che permetta di usare più parole e più tempo per raccontare la vita delle persone sarebbe il mio sogno oggi”.
Il 25 aprile dovrebbe essere una festa che unisce, e invece, in Italia, è considerata divisiva. Tu che ne pensi, e come lo celebri?
“Come festeggiare il 25 aprile è il grande tema politico di questi giorni, e credo che divisive siano naturalmente le idee politiche e quello che si vuole comunicare ai propri elettori attuali e del futuro, non la festa in sé. Per me personalmente è una festa storica: l’ho sempre festeggiata con la mia famiglia e ho sempre creduto nell’importanza di ricordare la storia, anche perché ho avuto la fortuna di avere dei nonni vivi abbastanza a lungo da raccontarmi quello che loro avevano vissuto. Credo che se tutte le persone che domani saranno all’Istituto Italiano di Cultura di New York e hanno deciso di partecipare alla festa è perché anche loro credono che ci sia un valore nel fermarsi, per un giorno, a ricordare il sacrificio tutte le persone che hanno dato la loro vita, o l’hanno cambiata, perché noi potessimo vivere oggi come viviamo, in libertà”.