Sono “figli di”, ma a questa loro condizione non si lega la facile conquista di una ribalta che li consacra al successo. Figli dei boss – Vite in cerca di verità e riscatto è il nuovo libro pubblicato da Dario Cirrincione, cronaca onesta e puntuale di un viaggio che (da Nord a Sud) conduce il giornalista palermitano a tu per tu con vite segnate dall’appartenenza a famiglie di spicco della criminalità organizzata.
Testimonianze preziose, quelle raccolte dall’autore, perché trascrizioni fedeli di incontri e dialoghi che tratteggiano i contorni di esistenze spesso in bilico. Sospese tra l’anelito all’affermazione di una propria identità e nodi parentali difficili da sciogliere, che spesso finiscono per adombrare anche il più genuino tentativo di riscatto.
Fra le voci raccolte nel libro – i cui diritti d’autore saranno devoluti in beneficenza al Centro di studi ed iniziative culturali Pio La Torre – ci sono quella inedita di Vita Maria Atria, nipote della testimone di giustizia Rita Atria e figlia del mafioso Nicola Atria e dell’onorevole M5s Piera Aiello, prima donna testimone d’Italia; quella di Vincenzo Pirozzi, attore e regista figlio del boss della camorra Giulio Pirozzi, uomo di punta del clan Misso; quella di Tommy Parisi, cantante e figlio del boss pugliese Savino Parisi, e quella di Francesco Tiberio La Torre (arrestato dopo il rilascio dell’intervista), figlio di Augusto La Torre, capo dell’omonimo clan camorristico di Mondragone.
E ancora, attraverso documenti, dichiarazioni social e voci terze, Cirrincione ripercorre le storie dei figli dei boss corleonesi Totò Riina e Bernardo Provenzano. Affronta, quindi, la delicata questione del recupero e dell’allontanamento dei minori a rischio da contesti famigliari di ‘ndrangheta: una misura prevista dal progetto “Liberi di Scegliere”, che nel libro viene raccontato sia dal punto di vista di alcuni giovanissimi che vi hanno preso parte, sia dai suoi principali fautori, tra cui il presidente del Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria Roberto Di Bella, già intervistato dalla Voce.
Dario Cirrincione si mette in gioco in prima persona nel raccontare storie diversissime per contesto, dinamica, soggetti. Ad accomunarle è piuttosto la complessità delle vicissitudini e il peso della verità con cui, volenti o nolenti, i protagonisti si trovano a fare i conti nel loro accidentato percorso. Una narrazione “dal di dentro”, da cui emergono profili tutt’altro che fissati una volta per tutte in stereotipi a uso e consumo dei media e che rifuggono da nette linee di demarcazione e facili etichette.
Dario, tu sei un giornalista, prima ancora che autore. Alla luce dei tuoi incontri e delle dichiarazioni raccolte, qual è l’idea che ti sei fatto sul modo in cui i figli dei boss vengono raccontati dai media italiani e internazionali? Pensi che gli identikit che i giornali ne tracciano si avvicinino a quelli delle persone che ti sei trovato davanti? E quanto è difficile narrare la loro verità senza cadere nel rischio di alimentare o rinforzare determinati stereotipi?
“C’è molta differenza tra i media italiani e i media stranieri quando si parla di ‘mafie’ e dei ‘figli delle mafie’. In Italia si fa ancora molta confusione tra mafia, camorra, ‘ndrangheta o sacra corona unita e fuori dall’Italia questo caos è amplificato perché c’è scarsa attenzione al tema; basti pensare a che fine ha fatto il progetto della Commissione Antimafia del Parlamento Europeo. I figli dei boss sono molto mitizzati e subito si pensa ai celebri figli di Don Vito Corleone del film Il Padrino o a Genny Savastano della serie tv Gomorra. Non c’è voglia di raccontare le storie vere dei ragazzi e delle ragazze, ma c’è solo voglia di sapere cosa i figli sanno dei loro padri e quanto abbiano preso le distanze dal mondo criminale. Molti di quelli che ho cercato d’intervistare mi hanno respinto dicendomi ‘A lei, come a tutti, interessa solo mio padre’ e ho faticato per spiegare loro che non era così. La cronaca, se fatta bene, è verità dei fatti. Raccontare la cronaca, come ho cercato di fare con un dialogo alla pari, è stato difficile; ma ha reso semplice la narrazione e credo che questo sia stato il modo migliore per mitigare il rischio di alimentare o rafforzare gli stereotipi”.
In pochissimi, però, nelle tue interviste, prendono effettivamente le distanze in maniera netta e/o esplicita dai padri e dalle famiglie d’origine. Quando parlano dei genitori li descrivono spesso come persone buone, premurose, che non hanno avuto possibilità di sottrarsi al loro “destino criminale”, e quindi in un certo senso quasi come “vittime” del sistema. Come pensi sia possibile per questi figli scindere il personaggio criminale dal genitore?
“La mia idea è che alcuni figli dei boss riescano a scindere perfettamente la figura del genitore – padre o madre – da quella del criminale, ma ciò non significa che non prendano le distanze. Aver scelto di non prendere in eredità il ruolo criminale, infatti, è una grandissima forma di distanza. Ci sono poi i figli dei boss “negazionisti” e i “fatalisti”. I primi, nonostante le sentenze e le condanne, negano a se stessi che il padre con cui giocavano da piccoli sia anche un feroce criminale; i secondi pronunciano spesso la frase “mio padre non aveva scelta”.
C’è un aspetto che più di altri ti ha colpito durante le interviste ai protagonisti del tuo libro e che magari ne accomuna i vissuti o ne segna le personalità, pur nella diversità delle loro storie?
“Sì, la diffidenza iniziale. Alcuni, poi sono riusciti a superarla. Altri, invece, sono rimasti rintanati nei loro dubbi e nella loro sfiducia. Sembrava paradossale: volevo scrivere un libro per contrastare dei preconcetti e poi ero il primo a essere additato come “il solito giornalista che voleva che il figlio del boss rinnegasse il padre”, cosa ben distante da ciò che volevo fare e che poi ho fatto. Una volta caduto il muro della diffidenza, ho scoperto un altro aspetto in comune: l’estrema disponibilità al dialogo e al confronto”.
In Figli dei boss, racconti anche realtà positive come il programma “Liberi di scegliere”, nato con l’intento di recuperare tanti giovanissimi per sganciarli da un contesto famigliare criminale che li espone a notevoli rischi. C’è chi però lo vive come un’imposizione bella e buona, anziché come alternativa… Quali sono le esigenze e le istanze più forti che emergono dalle esperienze di questi ragazzi?
“Allontanare i figli di ‘ndrangheta da contesti a rischio è la base per dar loro nuovi orizzonti e far comprendere che un altro mondo è possibile. Per fare ciò, però, è necessario impartire un ordine e dettare nuove regole che ai più sono sconosciute. Mi ha colpito molto, per esempio, la storia di un ragazzo che non era abituato a corteggiare le ragazze perché ‘le portavano a casa’; come se fosse una cosa normale. L’esigenza più forte emersa dai dialoghi è stata quella di avere un lavoro stabile che permetta di vivere dignitosamente in Calabria e senza il rischio di finire sulla strada della ‘ndrangheta. ‘Se ci fosse stato il lavoro – mi ha detto un ragazzo – non avrei fatto quello che ho fatto e non sarei finito lontano da casa'”.
Le storie dei figli di boss si legano non di rado a quelle delle madri. Sono proprio le donne spesso a chiedere in segreto l’allontanamento dei figli o di essere aiutate a loro volta a venir fuori da certe situazioni che le vedono “prigioniere”. Tu hai raccontato anche qualche storia al femminile… Quali sono, se ci sono, gli elementi caratterizzanti i percorsi che hanno per protagoniste le donne?
“Non c’è una sola risposta a questa domanda perché il ruolo delle donne cambia in base all’organizzazione criminale. Nella camorra, per esempio, le donne di sostituiscono ai boss con naturalità e le figlie di boss, di conseguenza, assumono un ruolo non troppo distante da quello dei figli maschi. Nella ‘ndrangheta, invece, le figlie sono considerate ‘merce di scambio” e servono per stringere alleanze o rinsaldare posizioni di potere. Nella mafia siciliana e in quella pugliese, invece, la figlia è quasi ‘devota’ alla famiglia e deve essere pronta a sacrificare la propria libertà per essa. Pensando alle donne che ho intervistato o delle quali ho scritto – per esempio Rita Atria – mi viene in mente un elemento dall’accezione positiva: il coraggio. Perché occorre coraggio sia per scegliere altre vie sia per decidere di togliersi la vita; cosa purtroppo non rara tra le ‘figlie di boss'”.
Perché hai sentito l’esigenza di scrivere un libro sui figli dei boss? E su quali aspetti o punti di vista inediti si focalizza il tuo lavoro?
“L’Italia è il paese dei figli di. Molti dei giornalisti famosi sono figli di giornalisti, lo stesso dicasi per i medici, gli avvocati, i notai, i politici, ecc… E quindi mi sono domandato se i figli dei boss delle mafie seguissero in qualche modo la regola. Per fortuna non è così e ho raccolto e raccontato una decina di storie belle ed emozionanti di giovani che hanno scelto, o almeno hanno provato a scegliere, altre strade alternative a quelle criminali. Ho voluto dimostrare che è ancora possibile portare avanti un giornalismo puntuale, elegante, non urlato né timoroso”.
Perché è “scomodo” dare voce ai figli dei boss?
“Perché oggi è scomodo dare notizie, è difficile perdere mesi per avere un’intervista ed è ancora più difficile dialogare alla pari muovendosi in terreni difficili. Oggi è tutto un copia e incolla. Gli “scoop” durano pochi secondi: il tempo di cambiare qualche parola e la notizia rimbalza qua e là. Le interviste si inventano o si ricostruiscono attraverso gli atti processuali passati sotto traccia dall’avvocato o dal giudice amico. Abbiamo dimenticato la regola base del giornalismo: la notizia è che l’uomo morde il cane e non il contrario. Il figlio del boss che non fa il boss è notizia. Mi spiace che tanti non la pensano così”.