E’ un fenomeno da indagare, un “qualcosa” di significativo, che merita di essere sostenuto, aiutato: la rivolta di donne che prendono consapevolezza di una realtà in cui sono ingabbiate, costrette a subire e patire. Donne che dicono basta alle feroci logiche cui le si vorrebbe inesorabilmente condannare di madri, sorelle, mogli, figlie di delinquenti affiliati alle ‘ndrine della ‘ndrangheta calabrese. Donne che si ribellano, fuggono dai paesi della Calabria, “emigrano”, cambiano identità, rompono con un passato, un presente e un futuro fatto di violenza, sangue e sopraffazione; vogliono vivere una vita “normale”.
E’ una nuova forma di “resistenza”: donne che rifiutano famiglie (intese come nuclei di consanguinei, e intese come cosca) malavitose. E può essere un inizio di slavina, un lento processo di maturazione e consapevole, con esiti imprevedibili.
Un apposito protocollo d’intesa è già stato sottoscritto tra varie organizzazioni e istituzioni: Procura nazionale antimafia, l’associazione Libera contro le mafie, il dipartimento pari opportunità della Presidenza del Consiglio, il Tribunale per i minorenni, la Procura per i minori e la Procura distrettuale di Reggio Calabria… E sono una decina le donne calabresi che hanno fatto il “salto”.
”Ognuna ha una storia diversa”, spiega Vincenza Rando, avvocato di “Libera”, “Ma tutte hanno impugnato la sola arma a loro disposizione, quella della ribellione”.
Non sono considerate collaboratori di giustizia o testimoni. Tecnicamente c’è un vuoto legislativo. Per loro dunque non c’è una specifica misura di protezione o un beneficio premiale. Tutta da costruire la “cornice” che possa assicurare loro una nuova vita. Per forze di cose deve essere un lavoro paziente, discreto, riservato, capace di essere insieme concreto e con soluzioni “aperte” e fantasiose: aiuto concreto, dal punto di vista economico; riservatezza, anzi: segretezza, per evitare che le “fuggite” possano un giorno essere vittime di vendette e ritorsioni; o anche di “punizioni” esemplari che siano di “insegnamento” per altre donne tentate di seguire l’esempio.
E’ una storia comune a tante: “colpevoli” di avere un determinato cognome, di essere nate e cresciute in particolari ambienti, vogliono affrancarsi da una realtà e da un mondo fatto di terrore, morte e morti, faide interminabili, vendette, lupare bianche che colpiscono tutti indistintamente, al di là dell’età e del sesso.
Ognuna di queste donne ha trovato il coraggio di contattare segretamente un carabiniere, un poliziotto, un magistrato; ha pazientemente atteso che venisse “costruita” una rete protettiva in realtà e località completamente diverse da quelle conosciute; e una mattina come tante, si è dileguata, senza lasciare traccia: semplicemente “evaporata”. Ora vivono disseminati in qualche paese o città del nord, nessuno sa niente di loro; e loro, anche con l’aiuto di assistenti e psicologi, si stanno lentamente ricostruendo una nuova vita.
Un percorso lungo, irto di ostacoli e difficoltà; i cui frutti sono, per forza di cose, di lenta maturazione. Ma questa è una delle possibili strade da percorrere, se si vuole sperare, un giorno, di sconfiggere e non solo contrastare la delinquenza mafiosa che come una enorme ragnatela non opprime solo Sicilia, Calabria, Campania, ma un po’ tutto il paese. Un ministro dell’Interno degno di questo nome a fenomeni come le donne di mafia “fuggite” dovrebbe prestare la massima attenzione, e agire di conseguenza.