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March 24, 2019
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Il rapporto Mueller non incrimina ma non esonera, eppure Trump esulta e accusa

Il ministro della giustizia Barr rivela le conclusioni delle indagini del procuratore speciale Mueller e Trump torna spaccone. Adesso attendiamo il Congresso

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 3 mins read

Che il rapporto di Robert Mueller sul cosiddetto Russia-gate non portasse all’incriminazione di Donald Trump si sapeva. Anche perché un presidente in carica, secondo consuetudine, potrebbe essere portato ad un processo penale solo dopo la fine del mandato. Semmai si pensava che a rischiare potessero essere i suoi figli, che invece se la sono vista brutta ma sono stati risparmiati da Mueller.

Quello che non si sapeva ancora era quanto il presidente degli Stati Uniti si sarebbe spinto dopo la “rivelazione” del rapporto, con la sua litania da spaccone col “ve lo avevo detto”, che è stata tutta una perdita di tempo… Trump lo ha fatto al massimo del suo carattere di bullo, chiamando le indagini una “vergogna” e addirittura “illegali” e dicendo che lui sarebbe stato “totalmente esonerato”.

Una perdita di tempo? Una vergogna? Totalmente esonerato?

Dopo che il suo consigliere nazionale, il suo ex capo della campagna elettorale, il suo avvocato, un suo consigliere e amico sono finiti tutti in galera, sarebbe stata una perdita di tempo? E chi si dovrebbe vergognare, Mueller? Chi lo ha incaricato? Chi si dovrebbe vergognare è solo chi risulta essere arrivato alla Casa Bianca grazie anche all’aiuto di un certo Putin (Nel rapporto Mueller si afferma che non si può provare la collusione di Trump con i russi, ma che il Cremlino ha interferito nelle elezioni per favorire Trump, questo è provato). A vergognarsi dovrebbe essere soltanto Trump, ma tant’è.

Solo chi si è invaghito di Trump ai tempi del “you’re fired” del demenziale show tv “The apprentice”, può ora pensare che il suo eroe-bullo l’ha fatta franca anche stavolta. In realtà per Trump, come è stato già detto, questo non è altro che l’inizio della sua fine. Saranno i procuratori federali del distretto di Manhattan, a cui Mueller ha passato molte carte scottanti, a fargli rischiare tra qualche anno la galera, per cosucce tipo frode fiscale e ricettazione di denaro di dubbia provenienza.

Nel sistema giudiziario americano, per qualunque indagine fatta da un procuratore, speciale o meno che sia, quando non si arriva all’incriminazione non significa che l’indagato fosse estraneo ai fatti. Quasi sempre significa che probabilmente l’indagato ha anche compiuto molti degli atti criminali di cui si sospettava, ma che le indagini non hanno portato alla prova certa. Perché negli Stati Uniti, un procuratore non va mai al processo se, finite le indagine, non é sicuro di poter vincere. Poi magari perde, ma se ci va, pensa di poter vincere. Perché pensa di aver provato il suo caso. Altrimenti non chiede l’incriminazione e il processo. Al contrario che in Italia, certo, dove spesso l’accusa riesce comunque ad avviare un processo perché magari pensa di continuare le indagini durante e se poi si perde, anche il procuratore si può appellare e continuare (eventualità vietata negli USA, spetta solo alla difesa potersi appellare a una sentenza di colpevolezza, non il contrario).

Quindi una volta stabilito questo, che Trump, nonostante lui ora faccia il solito spaccone, non è stato perseguitato ingiustamente perché non é stato incriminato (ma molte persone vicinissime a lui lo sono state), bisogna sperare che il valore e peso politico delle indagini e quindi del rapporto Mueller, faccia la sua strada al Congresso e che si stabilisca una volta per tutte, che razza di presidente é andato a finire alla Casa Bianca.

Nella sua dichiarazione riassuntiva del rapporto il ministro della Giustizia Willian Barr, cita Mueller scrivendo che “does not conclude Trump committed a crime, it also does not exonerate him”. Non conclude che Trump abbia commesso un crimine, ma non lo esonera.

Tocca ora al Congresso soppesare per bene queste conclusioni del rapporto Mueller e soprattutto rivelarne al pubblico l’intero contenuto (vedi video sotto), e magari continuare a indagare. E poi quindi, al popolo americano giudicare. E trarne le conseguenze per il 2020.

 

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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