“Un Morto ogni tanto” la mia battaglia contro la Mafia invisibile, è il libro inchiesta di Paolo Borrometi, giornalista siciliano, nato a Ragusa nel 1983, autore di numerose inchieste pubblicate su La Spia, giornale da lui stesso diretto, sulla Mafia siciliana. Nel libro, Borrometi fa nomi e cognomi, racconta quella mafia invisibile fatta da politici, imprenditori, colletti bianchi. Dal 2014 vive sotto scorta per il mancato attentato per mano mafiosa, sventato dopo un’intercettazione telefonica. Un libro scritto dopo la grande paura, il bisogno di mettere nero su bianco le verità sulla Mafia. Verità che vanno raccontante perché come dice lo stesso Borrometi “i giornalisti sono il cane da guardia della democrazia”.
Partiamo dal titolo del tuo libro Un morto ogni tanto e dall’intercettazione dei mafiosi che dicevano: “Ogni tanto un morto serve per dare una calmata a tutti”.
“E’ l’intercettazione con cui il 10 aprile del 2018 è stato scoperto un vero e proprio progetto di attentato con auto bomba che doveva essere realizzato nei miei confronti. Avevano affittato una base di appoggio, una casa a Pozzallo e avevano identificato quelli che dovevano essere i killer, quelli del clan Cappello. In quell’occasione la Polizia di Siracusa e soprattutto la Procura Antimafia di Catania, hanno appunto scoperto e arrestato i boss di Pachino. In questa drammatica intercettazione ambientale in cui i boss di Pachino parlavano di un attentato assolutamente imminente da realizzare in occasione di un mio convegno in una scuola a Pachino è partita l’operazione delle Forze dell’ordine. Ed è partita la voglia di scrivere il libro e lo dico con grande franchezza, è facile immaginare che in quell’occasione ebbi una paura matta, e da quella paura, la voglia di mettere tutto il prima possibile nero su bianco. Questo libro come ha detto una collega è “un libro con nomi e cognomi non è una storia autobiografica”, parte da quelle intercettazioni, parte da quella paura ma prende le mosse da quelle che sono le mie inchieste: con nomi e cognomi con società, nomi di boss, colletti bianchi, politici, affinché la gente capisca: io non so quanto “mi resta” da quell’attentato scoperto. E’ per questo motivo che chi vuole sapere con questo libro può conoscere quello che accade con le agro-mafie, quello che accade con collusioni tra mafia e politica, in un territorio che è paricentrico per tutta l’Italia”.
Oggi la mafia è una SpA, ricicla danaro nelle banche, nei circuiti internazionali, non spara più. Secondo te come bisogna contrastarla? Quanto è forte la collusione tra amministratori, politica e Mafia?
“Sul fatto che non spari più io non sono d’accordo. La Mafia agisce in due modi: da un lato come hai ben detto, con la corruzione, il riciclaggio, poi ricorre alla violenza solo quando è strettamente necessario: leggasi l’attentato di due anni fa al presidente del Parco dei Nebrodi Giuseppe Antoci, che io racconto nel mio libro, è un mio caro amico e perché in quei momenti è stato uno dei miei appoggi. Leggasi l’attentato che dovevano fare a me e ai ragazzi della mia scorta, ma leggasi tutti gli episodi di violenza che ci sono. Oggi dire che la Mafia non spara più secondo me è pericoloso, è pericoloso proprio come il titolo del mio libro cioè “Un morto ogni tanto”. E’ un dato oggettivo la Mafia continua a utilizzare la violenza ma la utilizza soltanto quando è strettamente necessario. Nel mio caso subito dopo le intercettazioni il boss venne interrogato dai magistrati e ai magistrati che gli chiesero perché volesse uccidere Paolo Borrometi e se fosse reale questo piano, lui quel piano lo ha rivendicato dichiarando “assolutamente sì, con quel piano noi vogliamo uccidere Paolo Borrometi perché da un lato Borrometi ha parlato di noi quando nessuno parlava, dall’altro lato con le sue inchieste – si riferivano alle inchieste su IGP di Pachino – ci ha fatto perdere milioni di euro di commesse”.
A 48 ore dall’uscita del libro sei stato querelato da un deputato dell’Assemblea siciliana…
“E’ un deputato che qualche mese fa è stato arrestato per voto di scambio politico mafioso poi rimesso in libertà dal Tribunale del Riesame che ha detto che aveva comprato i voti non dalla Mafia ma da singoli soggetti. Io racconto la storia di questo signore che mi ha annunciato una querela e che io aspetto con ansia perché mi permetterà di dare tutte quelle prove documentali che ho, basta una semplice visura camerale come ho fatto io, di tutte le sue società della sua famiglia per capire. Lui ammette che le società hanno come commercialisti della struttura societaria gli stessi commercialisti dei familiari di Matteo Messina Denaro, della sorella del cognato che poi sono le stesse persone che sono citate nella relazione di scioglimento del Comune di Castelvetrano. Per chi non conosce la Sicilia le società di questo deputato sono a Rosolini, il comune di residenza dei commercialisti è a Castelvetrano: tra i due comuni c’è una distanza di 4 ore di macchina, in 6 ore di pullman o 8 di treno. E quindi io mi sono domandato perché, ma in un contesto molto più ampio. Nel libro racconto di Giuseppe Gennuso, lo faccio con le parole dei collaboratori di giustizia, lo faccio con prove documentali alla mano. Questo annuncio di querela, siamo a un punto in Italia dove le querele si annunciano prima di essere esposte, ci fa comprendere a che punto siamo. Lui stesso dice “sì è vero questi commercialisti ce li ho però non li ho mai utilizzati, Borrometi mi sta diffamando”. Lascio giudicare ai lettori quanto temeraria possa essere questa querela”.

Un colpo inferto alla Mafia con le parole. Le parole danno fastidio?
“Le parole danno fastidio, le inchieste danno fastidio ed è per questo che noi dobbiamo continuare a farlo. Cerco di dirlo in ogni modo nel mio libro ma nella mia attività giornalistica fino a oggi. Questo paese non ha bisogno di eroi, io rifuggo completamente il bollino di giornalista antimafia. Non c’è niente di più sbagliato di definirsi in questo modo. Io sono solamente un giornalista che prima ancora è un cittadino cresciuto con le immagini della strage di Capaci del 1992: avevo solo 9 anni e sono le prime immagini che io ricordo nella mia memoria televisiva diciamo. Ho conosciuto la figura di Giovanni Spampinato, uno dei 9 giornalisti uccisi per mano della Mafia del nostro Paese che ancora oggi si dice che “se l’è andata cercando”. Io sono soltanto un giornalista che sognava di fare il giornalista sin da piccolo e ha cercato di farlo, nonostante tutto. Non esistono giornalisti antimafia, anti illegalità, quelle sono le precondizioni di un impegno. Esistono giornalisti che cercano di fare bene il proprio dovere e sono tanti in questo Paese, purtroppo però esistono dei giornalisti che non dovrebbero proprio farlo”.
La cattura del super latitante Matteo Messina Denaro è sempre più lontana. Quale effetto avrebbe sulle famiglie mafiose se accadesse il contrario?
“Penso non solo sulle famiglie mafiose, ma al nostro Paese. Matteo Messina Denaro non è solo un boss, un capo mafia o l’ultimo dei boss stragisti, è soprattutto un simbolo per quella Mafia che si crede inafferrabile e che vorrebbe continuare ad essere tale. Io spero che lo Stato voglia realmente acciuffare Matteo Messina Denaro: 25 anni di latitanza non si fanno solo con la copertura mafiosa, 25 anni di latitanza si fanno anzitutto con delle coperture che sono anche all’interno degli apparati dello Stato. Ecco perché sono assolutamente convinto che la cattura di questo boss non sarebbe solo una bella notizia per la Sicilia, per la lotta alla Mafia ma anche per lo Stato”.
Nino Di Matteo, il processo sulla trattativa Stato-Mafia, l’agenda rossa di Borsellino, pensi che prima o poi questa verità verrà fuori?
“Spero che questa verità verrà fuori. Un Paese che non cerca la verità è un Paese che ha dei grandissimi problemi e il nostro è un Paese che ha tante verità che a quanto non vedo non vogliono essere conosciute. Il Processo di Caltanissetta sull’omicidio di Borsellino, si intreccia drammaticamente con il processo cosiddetto Trattativa Stato-Mafia e, noi abbiamo dato la notizia della condanna della bontà delle tesi di magistrati coraggiosi che in tutti questi anni sono stati in silenzio nonostante siano stati infamati e diffamati da più parti. Li abbiamo lasciati soli eppure in pochi hanno raccontato quello che c’era all’interno di quelle cinquemila pagine della sentenza che sono strettamente legate ad un periodo in cui, dopo una manciata di giorni, venne ucciso Paolo Borsellino. Quell’agenda rossa che conteneva tutto, che è sparita anche in questo caso, non per mano di mafioso o per mano di quei mafiosi che conosciamo come tali affiliati a Cosa Nostra, è sparita per mano di persone che dicevano di rappresentare questo Stato e che invece hanno rovinato l’immagine del nostro Stato. E noi lo dobbiamo dire con forza, dobbiamo aiutare le Forze dell’Ordine, la Magistratura facendo il nostro dovere. Parlare con la gente. Se noi pensiamo che le mafie possano essere sconfitte solo con le operazioni di Polizia e Magistratura, non abbiamo capito niente. Io sono stato sempre convinto che le mafie si sconfiggono con l’impegno di tutti, di giornalisti, di imprenditori coraggiosi, di sacerdoti e con quelle persone particolarmente esposte come Nino Di Matteo che ha sacrificato la propria vita in nome e per conto della verità di questo Paese”.
L’Articolo 21 della Costituzione italiana, Libertà di parola e di espressione. Il Primo Emendamento della Costituzione Americana difende la libertà di stampa: ma quanto siamo liberi in Italia?
“Oggi penso che abbiano un grandissimo problema così come c’è negli Stati Uniti: oggi chi governa pensa di potersi scegliere l’interlocutore e quindi il giornalista. I social network vengono considerati bastevoli e si cerca in tutti i modi di eliminare la cosiddetta intermediazione che è ovviamente a cura del giornalista. Questo è un pericolo, un pericolo perché il giornalista ha un ruolo fondamentale che non è quello di fare da scendiletto al politico di turno che si chiami Trump o non so chi. Non si può scegliere un giornalista amico. Inizio il libro con una citazione a cui tengo tantissimo di Horacio Verbitsky che dice:
Il giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è solo propaganda. Il suo compito è dire cosa è nascosto e pertanto essere assolutamente molesto. Il giornalismo non può mai piacere al potere.
Penso che in questo momento ci sia uno stato pericoloso della libertà di stampa in tutto il mondo, nell’ultimo anno sono stati uccisi almeno 4 giornalisti in Europa, mi riferisco alla straordinaria e compianta Daphne Caruana Galizia. Il giornalismo deve essere il cane da guardia della democrazia, non può e non deve essere il cane da compagnia. Dobbiamo continuare a fare il nostro dovere. Quando venni aggredito percepivo 3,10 euro lordi ad articolo e non ho mai pensato di smettere perché mi sembrava troppo poco. Credo che ne valga dell’indipendenza e dell’autorevolezza di ognuno di noi, non possiamo permettere di perdere autorevolezza o che siamo tutti uguali, ci sono stati giornalisti che sono stati arrestati anche per mafia, nello stesso processo dove c’erano quei boss che si servivano di quei giornalisti che volevano uccidere e mi riferisco a Giovanni Tizian. Dobbiamo essere diversi e fare unicamente il nostro dovere, dico sempre che non sono un eroe, cerco di allontanare qualsiasi tipo di mistificazione. Questo libro non è un’autobiografia ma è innanzitutto un libro di inchiesta”.