Nell’impenetrabile silenzio tedesco si sta tessendo la tela per il nuovo governo che, piaccia o meno, avrà una forte ricaduta sull’economia germanica ma, soprattutto, su quella europea e mondiale. E mentre la maestra Germania non c’è, gli allievi, cioè gli altri Paesi dell’UE, pare si siano dimenticati degli obblighi dello stare insieme.
Per averne conferma di tutto ciò basta vedere come è stata gestita la crisi apparentemente solo “umanitaria” fra la Polonia e la Bielorussia mentre, dietro la drammatica e tragica presenza degli immigrati accampati al confine bielorusso, nascondeva anche i rifornimenti di gas e la stretta delle sanzioni economiche della UE nei confronti di Lukashenko, presidente del suo Paese dal 1994 oltre che fedelissimo alleato di Putin.

A prestare attenzione alle dinamiche europee ci sono anche gli Stati Uniti, con Biden che ha confermato Powell alla presidenza della Fed per un secondo mandato ed ha anche nominato vice presidente della Banca centrale Lael Brainard. “Il nostro Paese deve ancora affrontare sfide importanti mentre emergiamo dalla pandemia, ma già abbiamo fatto enormi progressi nel riportare in vita la nostra economia e nel riportare gli americani al lavoro – annuncia un comunicato stampa diffuso dalla Casa Bianca – da quando il presidente è entrato in carica, l’economia ha creato oltre 5,6 milioni di posti di lavoro, la disoccupazione è scesa al 4,6% e il ritmo di crescita della nostra economia supera il resto del mondo sviluppato“. La loro scelta fa pensare a una Banca centrale statunitense più accomodante in termini di politica monetaria e anche più vicina al senso “politico” della finanza e dell’economia in genere.
Sul piano globale c’è, invece, una resistenza alle politiche espansionistiche dell’Europa e degli USA che hanno generato a Bruxelles il dibattito su come cambiare i famosi parametri di bilancio (3%rapporto deficit/Pil, 60% rapporto debito/Pil) a partire dal 2023, quando tornerà in vigore il Patto di Stabilità ora sospeso per la pandemia. Persino il Mes, il fondo di diritto lussemburghese guidato dal tedesco Klaus Regling, ha avanzato una proposta di revisione dei tetti fiscali per l’eurozona, suggerendo di portare il famoso rapporto debito/Pil dall’attuale soglia del 60% al 100%.
Solo chi non vuol vedere non comprende che il mondo è cambiato con la pandemia, ma il timore di molti è che alcuni siano incapaci di accettarlo. Fra questi c’è il leader del Partito dei liberali tedeschi (Fdp) Christian Lindner, il nuovo ministro delle Finanze tedesco nel prossimo governo federale di coalizione “a semaforo”, composto dai socialisti di Olaf Scholz e dai Verdi guidati da Annalena Baerbock . Lindner è il classico falco dell’austerità a dispetto delle tragedie e tutte le sue ricette economiche, per la verità insieme alla corrente più conservatrice della Cdu all’epoca capeggiata dal ministro Wolfgang Schauble, e in ciò appoggiate dalla Commissione Europea e dalla Banca Centrale Europea durante la crisi del debito pubblico della Grecia risultate, alla fine, totalmente fallimentari, aggravando ancora di più la situazione finanziaria di Atene con costi sociali indescrivibili.

Ci sentiamo perfettamente in linea e totalmente d’accordo con quanto il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, paventando l’insediamento di Lindner al neo governo, ha dichiarato alla rivista Die Zeit: “L’agenda della politica finanziaria del Fdp e di Lindner è solo un accumulo di clichè conservatori, soprattutto degli anni Novanta. Sarebbe un errore esaudire il desiderio di Lindner. La Germania e l’Europa non possono permettersi questo crash-test. Per il suo stesso bene, a Lindner dovrebbe essere risparmiato l’impossibile compito di dover applicare la sua agenda di bilancio all’attuale situazione finanziaria odierna”.
Chi andrà a ricoprire quel posto è di cruciale importanza per tutta l’Unione, perché dovrà cimentarsi a rivedere quei parametri di Maastricht e Philipp Heimberger, noto economista austriaco, ha affermato in modo perentorio che: “non c’è nessuna evidenza che ad alti livelli di debito corrisponda una minor tasso di crescita”. Ovvero, non c’è nessuna prova scientifica che un grande debito pubblico rispetto al Prodotto interno lordo debba obbligatoriamente ridurre la crescita.