Per scoprire le origini del significato della festa del Thanksgiving e le radici della nazione degli Stati Uniti d’America dobbiamo ripercorrere la storia dei Padri Pellegrini che, dopo il primo insediamento di coloni avvenuto nel 1607 a Jamestown, Virginia, tredici anni dopo crearono il secondo nucleo di insediamento a Plymonth, Massachusetts, segnando di fatto l’inizio della colonizzazione europea. Erano intrepidi viaggiatori che a bordo della Mayflower, un’imbarcazione di appena 30 metri, attraversarono l’Oceano e fondarono una colonia improntata sui principi di democrazia e uguaglianza, cercando di divulgare liberamente quello in cui credevano. Erano principalmente calvinisti inglesi che stavano sfuggendo all’intolleranza della Chiesa anglicana nei loro confronti. Volevano conservare la propria integrità spirituale sottraendosi al soffocamento della riforma protestante e al ritorno della corruzione del cattolicesimo.
Sotto la guida di John Carver, arrivarono sulla roccia di Plymonth il 21 dicembre del 1620 e vi edificarono un villaggio e un forte. Inizialmente sarebbero dovuti sbarcare in Virginia, dove il sovrano Giacomo I aveva concordato loro una concessione di una parte del territorio, per conto della compagnia commerciale di Plymouth. A causa delle condizioni di navigazione avverse furono costretti a dirigersi verso il Massachusetts, dove, essendo fuori dalla zona a loro designata, si ritennero sciolti dagli obblighi contrattuali verso la compagnia. Per legittimare il loro controllo su questo lembo di terre, sottoscrissero un patto chiamato Mayflower Compact, attraverso il quale si proclamarono corpo civile e politico, istituendo una forma di autogoverno, incentrato sull’impegno dei membri a promuovere il benessere collettivo. La loro sopravvivenza agli inizi fu piuttosto complicata, riuscirono a superare il primo inverno solo grazie agli aiuti ricevuti dalla popolazione indigena.
Grazie all’inaspettata abbondanza del raccolto del Novembre del 1621, venne data origine alla prima festa del Ringraziamento, alla quale partecipò anche la tribù nativa americana dei Wampanoag. Nel 1863, durante la guerra di secessione, Abramo Lincoln ufficializzò la celebrazione del giorno del Ringraziamento, che da quel momento divenne una festa annuale, perdendo progressivamente il suo significato cristiano. Ma è nel secolo scorso che la festività ebbe la sua definitiva consacrazione, quando l’allora presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt ne sancì l’istituzione, facendo approvare il Thanksgiving dal Congresso nel 1941. Ancora oggi risulta essere una delle feste più importanti e celebrate dagli americani, il momento migliore per invitare amici e parenti prenderli per mano esprimendo loro la nostra gratitudine.
Quando il governo italiano, a seguito di un accordo internazionale, consegnò mille ettari di terreno all’esercito USA, nella macchia mediterranea che si estende fra Pisa e Livorno, nacque nel 1952 la base americana di Camp Darby, dedicata al generale William O. Darby fondatore degli US Army Rangers deceduto in guerra nel 1945.
Oggi la base, seppure ridimensionata a seguito di un accorpamento con la Caserma Ederle di Vicenza, occupa circa 1500 persone fra civili e militari e fa parte di altri 7 insediamenti militari americani in suolo italiano fra cui L’Aeroporto di Capodichino in provincia di Napoli, L’Aeroporto di Aviano a Pordenone, la base di Gaeta a Latina, la base dell’isola della Maddalena, la stazione navale di Sigonella fra le province di Siracusa e Catania, l’osservatorio di attività solare in San Vito dei Normanni in provincia di Brindisi e le Caserme di Vicenza e Longare.
Nel trascorrere il Thanksgiving nella base militare di Camp Darby abbiamo intervistato Trang Cline e Leslie Brady, mogli di due militari e impiegate all’interno di Camp Darby che ci hanno raccontato la loro esperienza.
Il vostro lavoro porta a una forma di nuovo nomadismo. Ci vuoi raccontare gli aspetti in positivo e in negativo di questa esperienza?
Trang Cline: “Fra gli aspetti positivi sicuramente quello che ti permette di entrare in contatto con altre culture. Non mi ero mai spostata dagli Stati Uniti e quando ci hanno trasferiti in Corea ero molto giovane ma questa esperienza mi è stata utile, ho iniziato a capire e accettare aspetti di vita che non conoscevo. Sicuramente il lato negativo consiste nel dover lasciare le persone che hai incontrato e con le quali hai stabilito dei legami profondi”.
Come vengono festeggiate le più importanti festività americane nelle basi?
“Quando ricorrono le festività americane come il Ringraziamento, mio marito che ha molti italiani nella sua unità li invita a casa in modo da poter festeggiare tutti assieme. Facciamo un grande pranzo, per noi è davvero un’immensa famiglia. É una straordinaria esperienza vivere qua, e sono davvero dispiaciuta al pensiero di dover ripartire per un’altra destinazione a giugno. Ma questa è la vita militare, ogni volta cerchi di riprendere da dove avevi interrotto”.
Cosa vi manca di più dell’America e al contrario cosa avete trovato o siete riusciti a integrare nei nuovi paesi in cui avete vissuto o state vivendo?
“Amo l’Italia ha una storia bellissima, amo la sua cultura, il suo cibo anche se è tanto diversa dagli Stati Uniti. Ho imparato l’aspetto “easy going” degli italiani. La rilassatezza, la fluidità, la tranquillità, lo stile che avete in tutto quello che fate. Stiamo cercando di integrare ognuno di questi aspetti nella nostra quotidianità, in modo da rendere la nostra vita familiare migliore”.
Quante volte un militare nella sua carriera può cambiare destinazione?
“Dipende molto dalla posizione ricoperta. Mio marito, si deve spostare ogni due anni. Ci sono invece alcuni militari che stanno in un luogo anche per nove anni, dipende da quello di cui l’esercito necessita e il ruolo che si riveste. I comandanti cercano sempre di intercettare le esigenze delle famiglie che sono una priorità, perché il principio è che se le famiglie stanno bene, stanno bene anche i soldati. La protezione delle famiglie per la protezione del soldato”.
Cosa si racconta a un figlio quando si deve partire per una missione pericolosa?
“In paesi come l’Italia le missioni sono civili, ma i militari sì possono anche andare al fronte, in un teatro di guerra. La differenza è rappresentata dalla sua pericolosità, se mio marito fosse sulla linea frontale sarei sicuramente spaventata, sapendolo costantemente in pericolo. Per ottenere le informazioni necessarie ci appoggiamo ai leader di SFRG (service family readiness group), di cui solitamente è responsabile la moglie del comandante. Spesso le missioni oltre a essere complicate sono anche lunghe, alcune possono durare nove mesi o un anno”.
Spesso entrambi i genitori sono militari in questo caso come viene gestita la quotidianità familiare? É prevista una sorta di alternanza nelle missioni?
“Sì assolutamente. Mio marito ha 39 anni, e la sua missione è quella di viaggiare molto. Quest’anno è stato a casa solo 7 settimane e quando era distante il nostro comandante e le mogli di altri militari si sono presi cura di me e dei nostri bambini, dedicandoci il loro tempo”.
Come sono i vostri rapporti con le comunità che vi ospitano? Vi trovate bene in Italia?
“I nostri rapporti sono ottimi. Abbiamo dei vicini italiani fantastici. Vedendo che ero in difficoltà nel tagliare il prato di casa si sono offerti di falciare l’erba al posto mio e addirittura dopo un paio di settimane rientrando l’ho trovato già tagliata. Vivere in una comunità dove non ci sono persone che condividono la tua stessa esperienza ti permette di conoscere meglio usi e tradizioni inaspettate”.
Qui la testimonianza di Leslie Brady.
Cosa significa per la tua famiglia appartenere al USA Army
Leslie Brady: “É un tale privilegio e onore far parte di questo “Bene più grande”. Ho incontrato mio marito mentre stava percorrendo questa carriera, sapevo che questo sarebbe stato il tipo di vita che avrei avuto con lui, è stato un processo di apprendimento e di crescita, non avrei potuto definire la vita militare prima. Per mio marito è sempre stato un sogno far parte dell’aeronautica fin da quando ne ha avuto memoria, per lui è la vita, è la sua passione. È stato un tale viaggio, mi ha aperto la mente, è stato bello, è stato difficile, è stato fantastico”.
Come si vive in una base militare come questa? Com’è la tua giornata?
“Abitiamo a 20/30 minuti dalla base, in campagna, ci siamo trasferiti nel 2020 durante la pandemia volevamo più spazio, abbiamo una figlia di 5 anni ed un cane che ne ha 13. La mia giornata inizia alle 5:30/6 del mattino. Alle 7:45 lascio la bambina a scuola sempre in base, dove rimarrà fino alle 16/16:30. La mia giornata lavorativa prevede un’immersione nella comunità, dovendomi assicurare che tutti abbiano gli aiuti di cui necessitano. Verso le 17/17:15 rientriamo a casa. La nostra giornata inizia presto e finisce molto presto. Quella finestra temporale tra le 17:15 e le 19:30 è colma di rumore, gioia, caos mentre prepariamo la cena, mentre giochiamo, divenendo un momento di decompressione anche per noi adulti”.
Come riesci a conciliare il lavoro con il tempo libero? Se hai tempo libero!
“Cerchiamo sempre di creare spazi assicurandoci di aver del tempo libero, poiché come “famiglia militare” in generale abbiamo diversi obblighi e responsabilità, ma abbiamo delle responsabilità anche nei confronti della nostra piccola unità familiare. Siamo riusciti anche a costruire rapporti di buon vicinato con la comunità che ci ospita. Ci piace inoltre viaggiare, esplorare la Toscana, non abbiamo più lasciato l’Italia da quando siamo arrivati. Quindi investiamo nelle relazioni e viaggiamo nel nostro tempo libero”.
Come riuscite a bilanciare la vita personale con quella comunitaria, militare?
“Fondere la vita familiare con quella comunitaria per me è un adattamento naturale, ne sono una grande sostenitrice. Ero una persona molto indipendente, incentrata soprattutto su me stessa poi mi sono ritrovata sposata e dipendente dalla vita militare per la prima volta da quando avevo 15 anni. Non avevo un lavoro e non conoscevo nessuno, perché ci siamo sposati e immediatamente trasferiti nel Regno Unito, quindi la mia prima esperienza di servizio è stata in un paese straniero. In un contesto sconosciuto è estremamente difficile stabilire queste connessioni senza l’aiuto della comunità militare, da lì è poi possibile creare la tua strada verso l’esterno”.
Quali sono gli aspetti psicologici e le difficoltà che riscontri con tua figlia vivendo in un paese straniero?
“Il suo primo trasferimento è avvenuto quando aveva 15 mesi, il secondo quando stava per compiere 4 anni. Ci dicono che sui bambini non si abbiano effetti importanti, ma da madre posso dedurre che non è così, li affrontano con modalità diverse e forse riusciranno pure a dimenticare, ma quando noi ci siamo trasferiti qui per lei è stata dura e la situazione è diventata più dura anche per me perché quando rientrava da scuola, scoppiava in lacrime. Non voleva lasciare i suoi amici. Psicologicamente un trasferimento può avere molteplici significati, dipende molto da come viene vissuto e raccontato, da come spieghi questa che può senz’altro essere un’opportunità, una nuova avventura. É difficile per i bambini come lo è per gli adulti, dobbiamo essere realisti”.
Ho sentito che gestite molti programmi in questa base ci potresti spiegare meglio?
“Dall’Army community service che essenzialmente è come un’agenzia si sviluppano vari programmi, il suo focus è principalmente mettere in connessione la comunità e i nostri militari. Quindi c’è un intero plateau di possibilità per gestire i servizi più ampi. Qui a Camp Darby ACS il programma principale è quello dei volontari. Il più vasto è quello chiamato “Benvenuti in Italia”. Inoltre esistono programmi anche sulla gestione di prestiti di oggetti per quelle famiglie che al loro arrivo ne sono sprovviste, per la preparazione al trasferimento e all’impiego. Le opportunità dettate dal SOFA in Italia permettono alle mogli dei militari di lavorare solo all’interno della base”.
Il mese di aprile, è il mese del figlio militare, qual è il suo significato?
Il suo significato risiede in quanto meravigliosi e resilienti siano i figli dei militari. Io vado in pezzi solo a parlarne, noi abbiamo scelto questa vita ma nostra figlia non ne ha avuto la possibilità. La vita militare presenta situazioni e opportunità fantastiche, ma presenta anche momenti di sfida e il mese del figlio militare sottolinea quanto stupendi siano questi bambini, poiché mettono in valigia le loro vite, e lo fanno così tante volte, per seguire la loro famiglia, ricominciando di nuovo ogni volta. Il simbolo del figlio militare è il dente di leone. I loro semi trascinati dal vento crescono di continuo ovunque, sono veramente un simbolo di forza e tenacia. Ecco perché è stato usato per rappresentare questi ragazzi”.
La regola morale delle forze armate USA si riassume nel motto “dovere, onore, patria” anche i figli dei militari fanno propri questi valori crescendo?
“I bambini militari vedono il mondo in modo diverso dagli altri, sono abituati a viaggiare fin da piccoli a spostarsi in tante realtà diverse. Iniziano a avere una visione globale, rendendosi presto conto che la loro famiglia ha uno scopo più grande e che questo riguarda anche loro. Alla fine della giornata lavorativa in base risuona l’inno nazionale, non dimenticherò mai quando mia figlia che aveva tre anni, mise la mano sul cuore rimanendo in piedi e in silenzio come tutti gli altri. Vivere in questo contesto lo rende naturale qui ne incarniamo i valori, lei osservando aveva già imparato che questo è un segno di rispetto nei confronti del nostro paese, della nostra nazione”.