In un precedente articolo, Le procure in Italia e i processi dai danni economici giganteschi, avevo evidenziato gli enormi disastri economici e finanziari, oltre che di immagine, causati dalla faciloneria quasi persecutoria con cui diverse procure italiane rinviavano a giudizio compagnie con pochissimi indizi.
Nella fattispecie riferii dell’ennesimo processo in corso nei confronti di due grandi compagnie come ENI e Shell, per una presunta corruzione internazionale in Nigeria.
Testualmente scrissi che c’era allora “un processo tuttora in corso a Milano, di cui poco o per nulla si parla, che è partito 8 anni fa allorchè Paolo Scaroni, allora amministratore delegato dell’ENI, fu chiamato a rispondere, insieme al suo successore Claudio Descalzi, di corruzione internazionale insieme al colosso americano Schell. A dire della procura milanese per aver elargito una maxi tangente di oltre un miliardo di dollari e che vedrebbe coinvolto l’allora Ministro delle Finanze della Nigeria: Ngozi Okonjo Iweala.”
Come volevasi dimostrare, dopo otto anni di processi, accuse, perdite economiche enormi e coinvolgimento addirittura di Ngozi Okonjo Iweala, che nel frattempo Joe Biden aveva voluto al vertice della WTO (World Trade Organization), è arrivato pochi giorni fa il solito e prevedibile risultato finale: Claudio Descalzi, ceo di Eni, è stato assolto dal Tribunale di Milano. Non solo lui, ma tutti i 15 imputati, società comprese (Eni e Shell).
Per fortuna, la settima sezione del Tribunale di Milano guidata dal giudice Marco Tremolada ha scagionato anche gli allora manager operativi nel Paese africano, i presunti intermediari, Shell, con i suoi quattro ex dirigenti, e l’ex ministro del Petrolio nigeriano Dan Etete.
La Procura della Repubblica di Milano aveva, nel luglio scorso, chiesto condanne per tutti, tra cui otto anni di carcere per l’ad di Eni Claudio Descalzi, e anche per il suo predecessore Scaroni. Dieci anni per l’ex ministro del petrolio nigeriano, Dan Etete, 7 anni e 4 mesi per Roberto Casula, manager per la compagnia petrolifera italiana nell’area dell’Africa sub-sahariana, e la confisca di 1 miliardo 92 milioni e 400 mila dollari sia nei confronti di Eni.
Senza dimenticare le altrettanto importantissime assoluzioni come quella del russo Ednan Agaev e di Gianfranco Falcioni, un imprenditore ed ex viceconsole in Nigeria, l’ex presidente di Shell Foundation Malcom Brinded e gli ex dirigenti della compagnia olandese Peter Robinson, Guy Jonathan Colgate e John Coplestone.
L’avvocato De Castiglione, nel suo intervento a difesa, aveva evidenziato che “l’Eni e la Shell non hanno fornito alcuna provvista né alcuna tangente, ma hanno pagato per ottenere una licenza. Non vi è stata alcuna discussione con pubblici ufficiali, ma solo una discussione tecnico-economica sul prezzo del bene”.
L’assoluzione con formula piena perché “il fatto non sussiste” pone fine a un dramma italiano con fortissime ripercussioni internazionali e mi riporta alla mente quanto ho scritto nell’ultimo mio libro che sto completando: “Da quando Reginald Bartholomew, ambasciatore a Roma dal 1993 al 1997, tenne un incontro riservatissimo a Villa Taverna fra sette ancor’oggi sconosciuti giudici italiani e Antonin Scalia, giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti dal 1986 al 2016, incontro nel quale il giudice italo americano d’intesa con l’ambasciatore volle redarguire i magistrati sulle continue violazioni dei diritti della difesa nel periodo di tangentopoli”.
Invece la musica, a distanza di quasi 30 anni, ancora non cambia.