Con le nuove misure del decreto del 25 ottobre, un Paese già piegato dagli ingenti danni economici dei 3 mesi di lockdown, sarà letteralmente messo in ginocchio. Ma gravi e drammatiche saranno le conseguenze per alcuni settori, in particolar modo per quello della ristorazione. Bar, ristoranti, pasticcerie e tutte quelle attività che riguardano la gastronomia, tornano a soffrire. Con queste misure e vendite pressoché azzerate si prevedono, secondo Confcommercio Lombardia, perdite di decine di milioni di euro al mese. Nella regione, l’intero mondo della ristorazione perderà circa 638 milioni di euro, e “si rischia l’effetto valanga sull’occupazione in un settore che, solo in Lombardia dà lavoro ad oltre 150 mila addetti”. Chiaramente, i danni a livello nazionale, saranno molto più gravi. Oltretutto si tratta di un’area cardine in Italia, fondamentale anche per la memoria e la tradizione del Bel Paese. Secondo Fipe (Fondazione Italiana Pubblici Esercizi), lo scorso anno, il settore della ristorazione aveva un giro d’affari di 96 miliardi.
Con l’ultimo decreto firmato dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte è stato deciso che ristoranti, bar e pasticcerie, dovranno chiudere alle 18. “Inaccettabile” dicono in coro i ristoratori, “torneremo in piazza a protestare”. A Milano, mercoledì 28 ottobre, sotto la Madonnina, ristoratori e baristi aderenti alla Fipe hanno apparecchiato simbolicamente il sagrato. Ma questa è solo una delle tante manifestazioni. Da ormai giorni, non solo ristoratori, ma anche barman, sportivi, artisti, venditori ambulanti, tassisti scendono nelle piazze di tutta Italia, da nord a sud, e manifestano tutto il loro dissenso verso le nuove misure di un governo, che avrebbe dovuto anticipare i danni della seconda ondata di Covid-19, agendo preventivamente sulle strutture sanitarie e sul personale medico.
In Italia, nessuno cena prima delle 19 e quasi nessun ristorante, se non quelli dei centri, fanno orario continuato. In genere si apre dalle 12 alle 15 per il pranzo e dalle 19 alle 01 per la cena. “Una mazzata” commento i ristoratori.
Prima di Covid-19 tra i ristoranti correva una gran competizione tra chi offriva il “business lunch” più conveniente nel rapporto qualità/prezzo. A Milano era una vera e propria guerra. Un via vai di persone in giacca e cravatta riempiva i locali della città tra le 12.30 e le 14 da lunedì a venerdì, mangiava di corsa per poi tornare subito operativo in ufficio. Una pausa pranzo che portava anche a fidelizzare i clienti, un’occasione di interazione sociale, che finiva poi per garantire dei tavoli fissi durante la settimana. Alle volte, grazie ai “legami sociali”, il business lunch, offriva anche la possibilità di giocarsi una bella occasione per le cene aziendali. E infatti, soprattutto nel periodo natalizio, le agende si riempivano di prenotazioni da 60/70 tavolate. Un altro “business” che quest’anno non ci sarà più.
“Come si può pensare di rimanere aperti in queste condizioni?” si chiede Michele, un ristoratore di Milano. “Molti ristoranti abbasseranno le saracinesche. Aprire non conviene. Sarebbero più le spese: personale, fornitori, luce, gas, acqua, tasse, senza contare l’affitto. E per incassare quanto?”.
Abbiamo intervistato alcuni ristoratori di Milano e un giovane chef, per farci spiegare meglio il loro punto di vista.

Cosa non funziona del DPCM firmato dal premier Giuseppe Conte?
Paolo, un ristoratore di Milano, che partecipa alle manifestazioni che si susseguono nella città dal mese di aprile, spiega: “gli aiuti non bastano e inoltre i costi sono stati lasciati alti: tasse, affitti, tutto”.
Di diversa opinione è invece Savino: “Niente, non rimprovero niente al DPCM. Conosco com’è realmente la situazione negli ospedali, ho amici che ci lavorano e so la fatica che stanno facendo. Prevedo addirittura un lockdown completo per la Lombardia”.
Luciana, moglie di un ristoratore di Milano dice: “Il governo non ci aiuta! Avrebbero dovuto lasciarci lavorare. Di questo DPCM non accetterei niente, non vogliamo il ‘contentino’. Inoltre, lasciare il normale orario di apertura e chiusura, avrebbe aiutato a controllare e scaglionare gli ingressi, mantenendo la distanza e permettendo allo stesso tempo di lavorare. Niente che non si stesse facendo fino al giorno prima del decreto. In questo modo, invece, la ristorazione, già gravemente danneggiata dal primo lockdown, non potrà sostenere le spese e si vedrà costretta, non appena sarà possibile, a licenziare i dipendenti e con molta probabilità a chiudere l’esercizio pubblico. Sin dalla riapertura, la sicurezza di clienti e collaboratori è sempre stata messa al primo posto. I ristoranti hanno dato prova di poter esercitare la propria attività in sicurezza, offrendo le garanzie necessarie. Seduti ad un tavolo, le persone possono essere distanziate e la capienza all’interno del locale, può essere controllata. Il governo avrebbe potuto utilizzare i soldi per investire nelle terapie intensive e nel personale medico, o per aumentare i mezzi pubblici, dove è più probabile che avvenga il contagio, considerato l’affollamento”.
Secondo Leonardo, un giovane chef di trent’anni risponde: “Non c’è mai stata una linea guida. Prima ci è stato detto di adeguare le strutture: plexiglass, distanziamento tra i tavoli, riduzione della capienza, registrazione clienti, sanificazione eccetera; ora, ci hanno chiuso di nuovo”.

Perché la chiusura delle 18.00 non è un’alternativa valida?
Paolo afferma: “Non si ferma il Covid chiudendo i ristoranti solo a cena. Si ferma chiudendo tutto, compresi i mezzi pubblici”.
Savino risponde: “Il governo sapeva già benissimo che se avessero fatto chiudere alle 18 i locali, qualcuno non avrebbe nemmeno aperto, come nel mio caso. Oggi, ho deciso di chiudere, perché a pranzo ho incassato 350 euro, ieri soltanto 150. Con tutte le spese vive che ho, incassare queste cifre al giorno, mi comporta aumentare il debito verso i fornitori”.
Luciana spiega: “Una stupidaggine! Non risolve né il problema del virus e nemmeno permette al ristoratore di vivere. L’incasso della sera è quello che dà il 75-80% del guadagno. Chiudere alle 18 significa coprire un solo turno, cioè quello del pranzo, oltretutto già pesantemente condizionato dalla situazione dovuta al coronavirus che spinge molti a non uscire per paura e dall’incentivo dello smartworking”.
Leonardo: “Ci ricolleghiamo alla prima domanda. A questo punto era meglio chiudere. Non ha alcun senso, o il governo dà modo di lavorare o chiude, la via di mezzo non esiste. In questo modo ammazza tutti!”.

Qual’è il vostro stato d’animo, come vi sentite?
Paolo dice: “sono un lottatore, cerco di vedere positivo. Prima o poi passerà. Io nel frattempo ho aperto un altro locale di street food. Ma tantissime persone, psicologicamente non ce la fanno. Io cerco di andare avanti”.
Savino risponde: “purtroppo sono molto afflitto. Dopo 35 anni di sacrifici ci ritroviamo a ricominciare da zero”.
Luciana: “presa in giro. Sono arrabbiata. Tra l’altro la cassa integrazione di maggio non ci è nemmeno arrivata, il governo promette cose che poi non mantiene”.
Leonardo: “pessimo! Si era vista un po’ di luce dopo il lockdown in primavera. Ora siamo di nuovo a terra”.
Sarebbe possibile coprire almeno parte delle spese con l’asporto?
Paolo risponde: “No, nessuno paga 50 euro per mangiare una fiorentina a casa propria”.
Savino spiega che il suo ristorante ha un target medio alto: “Di asporto faccio lo 0,01%. Normalmente faccio solo 1/2 clienti al giorno. L’asporto non risolve il problema”.
Secondo Luciana coprire parte delle spese con questa iniziativa: “Non è assolutamente possibile. Il forno della pizzeria, per esempio, andrebbe comunque tenuto acceso a temperatura, così come il gas, le luci e almeno un minimo di personale. In ogni caso l’incasso non coprirebbe le spese, anzi. Si sarebbe comunque in perdita”.

Lo chef Leonardo risponde: “Credo nell’asporto. Certo si toglierebbe quella “italianità”, quella tradizione che solo noi abbiamo nel mondo, come il servizio al tavolo, la coccola al cliente, eccetera. Ma credo nell’asporto, perché siamo in un momento storico in cui il tempo è denaro. Sicuramente non sarebbe come lavorare al ristorante, ma qualcosina si potrebbe fare. Bisogna reinventarsi! Di certo gli spaghetti alle vongole non funzionano come asporto, ci sono piatti che vanno mangiati nell’immediato. Altri prodotti, invece, come un sushi, un panino o una pizza, si prestano meglio. Ovviamente i numeri dell’asporto dovrebbero essere abbastanza da coprire le spese”.
Quindi come pensate di agire?
Paolo spiega: “Ho aperto uno street food, penso sia la migliore soluzione. Un’altra potrebbe essere la conduzione familiare, perché in questo modo si taglia il personale”.
Savino risponde: “Non saprei, non è facile. Non vedo soluzioni. Purtroppo è così. Inoltre, il futuro della ristorazione, ormai da anni, comporta che ci siano pochi utili. Molte volte si andava a pareggio con i costi e i guadagni erano scarsi. Ora però, i soldi si perdono davvero. È un disastro!”.
Secondo Luciana: “Forse la soluzione è vendere, ma il problema è che nessuno compra. Piuttosto bisognerebbe convivere con il virus fino all’arrivo del vaccino. Chiaramente stare attenti: rispettare le regole, guanti, mascherina, igiene delle mani e distanziamento. Credo che in tanti, tantissimi, entro fine anno abbasseranno le saracinesche. Andremo a consegnare le chiavi a Conte, magari lui saprà gestire meglio”.
Leonardo: “Per adesso seguirò le disposizioni del mio locale, poi in futuro vedrò”.