Da molti anni si cerca di capire cos’è realmente la “povertà”. Qualche anno fa se ne occupò Martin Ravallion che, nel suo libro Poverty freak: A Guide to Concepts and Methods, dimostrò come la povertà è strettamente legata al Paese in cui si vive e al modo in cui l’economia di questo Paese viene gestita. Un aspetto fondamentale che sembra essere stato dimenticato da molti.
Recentemente lo studio dal titolo The Poverty Line, finanziato dalla Banca Mondiale, ha confermato il rapporto che esiste tra la soglia che divide il povero dal non povero (che dovrebbe corrispondere al livello minimo di entrate per sopravvivere) e il modo in cui questa soglia varia nelle economie di vari Paesi del mondo. I risultati dello studio sono sorprendenti sotto molti aspetti, soprattutto quelli che riguardano i Paesi dell’Unione Europea e il Giappone. In Europa, nonostante l’utilizzo in molti Paesi della moneta unica e nonostante quasi tutto il Continente sia ormai un unico mercato con regole e norme comuni, il costo della vita differisce sensibilmente nei vari Paesi. E, di conseguenza, cambia anche il livello di povertà. Ad esempio, in Danimarca e in Olanda bastano poco più di cinque dollari al giorno per vivere; in Paesi limitrofi (come la Norvegia, la Svizzera o il Regno Unito) è necessario il doppio per sopravvivere.
Lo studio però non ha tenuto conto anche di un altro fattore, tutt’altro che secondario e, per molti versi, essenziale per spiegare il livello di povertà di molti Paesi: l’evoluzione della povertà nel tempo. Ad esempio, da anni si continua a ripetere che la povertà in Italia è aumentata e che ci sono sempre più poveri. Affermazioni confermate dai dati: l’Italia si colloca al 33esimo posto su 41 Stati dell’Unione Europea e dell’Ocse, ovvero è posizionata nella terza fascia inferiore della classifica sulla povertà.
Eppure, per strano che possa sembrare, il costo di alcuni beni “primari”, quelli essenziali per la sopravvivenza, non è aumentato. Anzi, secondo i dati forniti dall’Ufficio studi Confcommercio (basati sui dati Istat), il costo (“normalizzato” ovvero al netto dell’inflazione) di alcuni beni è diminuito. Beni come la pasta (nel 1938 costava l’equivalente di 2,78 Euro, oggi costa la metà) o l’olio d’oliva (prima della Seconda Guerra Mondiale costava poco più di sei Euro al chilo e poco dopo addirittura 11 Euro al chilo, oggi invece costa intorno ai cinque Euro al chilo). E anche altri beni come il pane (nel 1938 costava l’equivalente di 2,10 Euro; oggi il costo è 2,86) non hanno avuto un aumento di prezzi tale da spiegare il livello di povertà dei nostri giorni.
Anche altri beni primari (non alimentari), come l’abbigliamento mostrano che, oggi, il loro costo è praticamente la metà di quello anteguerra e molto inferiore di quello degli anni ’50 del secolo passato. Senza contare che in quegli anni l’Italia era appena uscita da una guerra che aveva quasi distrutto l’economia del Belpaese e ridotto il potere d’acquisto degli italiani. Eppure, allora, gli italiani erano meno “poveri” di oggi.
Nel periodo d'oro, sulla spinta del boom economico, il Pil (Prodotto interno lordo) per abitante raggiunse quattro volte debito pubblico per ogni italiano. Oggi il Pil per abitante è di circa 27mila Euro (al termine del secondo conflitto mondiale era di 1.347 Euro), ma gli italiani muoiono di fame. Come mai? Una prima risposta potrebbe essere contenuta nel dato relativo al debito pubblico: alla fine della Grande Guerra, il debito pubblico per abitante dell’Italia era di 906 Euro. Oggi, dopo settant’anni di malgoverno, sulle spalle di ciascun cittadino gravano più di 35mila Euro di debito.
Ma non basta. Per comprendere appieno perché gli italiani sono sempre più poveri, bisogna tenere conto di diversi fattori. Il primo è che, in realtà, da anni molte voci sull’economia del Paese sono gestite in modo discutibile. Ma ciò che causa vera povertà, in Italia, è la dipendenza dall’Euro e l’aver ceduto la propria sovranità monetaria ad un soggetto terzo, la Banca centrale europea (Bce). Lo dimostrano i “numeri”. Il Giappone, un altro dei Paesi inclusi nello studio sulla povertà realizzato dalla Banca Mondiale, ha un debito pubblico che è quasi il doppio di quello dell’Italia (alla fine del 2012 era già il 236% del Pil). Eppure, quando si parla del Giappone, nessun economista pronuncia parole come default e le stesse agenzie di rating (come Moody’s) valutano l’economia del Paese del Sol Levante più affidabile di quella italiana.
Ciò è dovuto principalmente a due ragioni: la prima è che il Giappone, a differenza dell’Italia, ha conservato la propria sovranità monetaria e, quindi, può emettere moneta e regolare molto meglio l’inflazione (senza cadere in deflazione come è avvenuto in Italia e in altri Paesi dell’area Euro); la seconda è che il debito pubblico del Giappone è quasi interamente nelle mani dei giapponesi (secondo le ultime stime per circa il 90%).
Analoga, per molti versi, la situazione dell’Islanda: il suo rapporto deficit/Pil è il sesto peggiore in assoluto al mondo (dati Eurostat) e il suo spread è il doppio di quello italiano. Eppure, il fatto che recentemente il governo abbia deciso di abbattere il debito del Paese emettendo moneta e intervenendo sul potere delle banche, ha permesso all’Islanda di avere una valutazione migliore di quella dell’Italia.
Sono molti i Paesi che hanno un debito pubblico pari, se non superiore, a quello dell’Italia, ma che non sono altrettanto “poveri”. A cominciare dalla Germania: con 2080 miliardi di euro, il suo debito pubblico è il terzo più alto del mondo (dopo Usa e Giappone). Eppure per nessuno di questi Paesi (Usa, Germania e Giappone) la valutazione delle agenzie di rating e l’indice di povertà non sono così negativi come per l’Italia. Così, mentre altri Paesi stanno ristrutturando il proprio debito pubblico quasi gratuitamente, l’Italia, dopo aver ceduto parti della propria sovranità nazionale alle banche e all’UE, non sembra volerlo fare.
Ma non basta. Secondo alcuni esperti, diversi Paesi, tra i quali l’Italia, stanno attraversando un periodo di "repressione finanziaria". Nel 2013 uno studio dal titolo Honorable States? EU Sustainability Ranking 2013, ha dimostrato che il debito pubblico e il cosiddetto “gap di sostenibilità”, non dovrebbero essere valutati solo in relazione al rapporto Debito/Pil, ma anche in relazione ad altri fattori (deficit di bilancio corrente, debito “implicito” etc.). L’Italia ha un debito pubblico esplicito elevato, ma il suo debito pubblico “implicito” è molto minore rispetto, ad esempio, alla maggior parte dei Paesi dell’area UE e dell’Eurozona. Ciò nonostante i governi che si sono succeduti negli ultimi anni non sono stati capaci di far valere questo parametro sulla bilancia finanziaria dell’Unione.
A molti fanno gola le riserve auree del Belpaese e far classificare l’Italia “spazzatura” dalle agenzie di rating serve a far crollare molti settori dell’economia. In questo modo diventa facile acquistare parti rilevanti dei beni nazionali a prezzi stracciati (basti pensare a come, negli ultimi cinque o sei anni, intere fette del patrimonio nazionale sono state svendute).
Per fare ciò è stato necessario “dimostrare” che l’Italia è “povera”. È per questo che è stato aumentato il carico fiscale (altra causa della povertà nel confronto tra l’immediato dopoguerra e i nostri giorni). Sono stati bloccati quasi tutti i finanziamenti per la realizzazione di opere sia private che pubbliche utili per lo sviluppo dell’imprenditorialità: dalle infrastrutture alle agevolazioni a fondo perduto per le imprese. E, come “contentino”, sono stati concessi spettacoli da circo che hanno distratto l’attenzione della gente dai veri problemi del Paese. Aiuti che, invece, non sono stati negati ad alcuni settori (si pensi alla sanatoria per le agenzie di scommesse che, grazie a questa misura, hanno risparmiato centinaia di milioni di euro). Dopo tante promesse, gli ultimi governi hanno rinunciato anche a quelle che avrebbero potuto essere entrate consistenti per lo Stato: come le tasse e le imposte per le proprietà immobiliari della Chiesa (promesse dal governo Monti, ma mai diventate realtà).
Oggi buona parte del debito pubblico, e quindi della causa primaria di povertà in Italia, è dovuto agli interessi derivanti dall’aver ceduto alle banche la possibilità di emettere valuta, e a leggi capestro come il Fiscal Compact (anche questa introdotta durante la gestione tecnica di Monti). Leggi così contrarie ai principi fondamentali sui quali si sono basati i padri fondatori dell’Italia che sono state necessarie modifiche alla Costituzione (ad esempio quella per il pareggio di bilancio, introdotta durante il governo Monti).
È vero che oggi, in Italia, la gente è più povera di quanto non fosse nell’immediato dopo guerra. Ma la vera causa di questo stato di cose non è da cercare all’esterno: la povertà in Italia deriva dal modo di gestire la cosa comune. È per questo che, fino a che questo non cambierà, la situazione non potrà che peggiorare: l’accanimento fiscale su un popolo sempre più povero non sortisce alcun aumento delle entrate per lo Stato, anzi. Lo confermano i “numeri”: aumentare le tasse, come è stato fatto da tutti gli ultimi governi, è servito solo a creare nuovi poveri.