Vi abbiamo raccontato, una settimana fa, la storia della ragazza italo-canadese che voleva dare il suo contributo a un paese che ama, l’Italia, ma che non è stata contraccambiata. Era disposta a lavorare, a mettere a disposizione il suo “sapere”; non l’abbiamo saputa accogliere, e dopo un paio d’anni di “elemosine”, questa ragazza è tornata a Toronto, in Canada: ha subito trovato un posto sicuro, uno stipendio più che dignitoso, quello che poteva essere un arricchimento per l’Italia, lo diventerà per il Canada.
Non è un caso isolato. Ecco ora la storia di Angela C., una studentessa che fa dell’ottimismo la sua bandiera. Ha 27 anni, Angela, e deve prendere una decisione importante, che la segnerà per gli anni a venire: “Sono a un passo dalla laurea in Giurisprudenza, la tesi è in psicologia giuridica e il mio sogno è quello di diventare insegnante di diritto solo che a Napoli, dove vivo rischio di restare imprigionata in un vicolo cieco. Per inseguire le mie passioni, forse è meglio andare all'estero: magari puntare subito dritto su Parigi”. In Francia si può fare quel che non è possibile fare in Italia? Angela racconta che diversi docenti universitari le hanno proposto di provare il dottorato di ricerca, ma hanno anche prospettato una dura strada in salita: “Se da un lato mi inducono a restare, dall'altro mi scoraggiano”.
Non a caso, Angela è tentata dalla Francia. Parla, legge e scrive il francese come l’italiano conosce bene la lingua, è in contatto con altri giovani, colleghi che assicurano che oltralpe “il sistema universitario è molto più aperto. Questo mi induce a valutare la possibilità di fare un master in Francia. Chiaro che dovrò trovare anche un lavoretto per mantenermi fuori casa. Ma, è questo il paradosso, partire mi spaventa quanto restare in città. Se qui ho il sostegno della famiglia, rimane anche la deprimente prospettiva di seguire gratis il praticantato per diventare avvocato, come unico percorso possibile pur se Giurisprudenza è la facoltà per eccellenza che dovrebbe aprire mille strade”.
Stessa storia, quella di Veronica M., 33 anni, padre italiano, mamma francese: “Sono cresciuta in città ed espatriata ai tempi dell'università. Ho avuto l'opportunità di studiare a Parigi, completati gli esami universitari, ho iniziato diverse collaborazioni giornalistiche. Così ho trovato lavoro in un portale editoriale che si occupa di viaggi. Questo Paese offre tante occasioni professionali, mentre in Italia è tutto più difficile. Ho cominciato a scrivere nel 2006, il posto fisso è arrivato nel 2008 uno stipendio più che adeguato”. Tentazione di tornare? “Mi piacerebbe molto, anche perché i miei genitori vivono Nin Italia. Per il momento però la vedo difficile. Sono indipendente economicamente e abituata oramai a un modo di agire professionale. Ciò significa anche dare il giusto valore al lavoro che svolgo”.
Una terza ragazza, Chiara R.; lei vive a Londra da quando aveva 18 anni, ora ne ha trenta. Partita per studiare danza, in Inghilterra è rimasta: “Ne parlo spesso con mia madre, mi manca tutto dell’Italia: il cibo, la famiglia, persino l'aria”. Racconta: “Finito il percorso di studi a giugno, ho trovato lavoro a settembre. Ma, cosa più importante, nel corso degli anni l'esperienza lontano da casa mi ha consentito di frequentare persone con culture diverse e occuparmi del management di eventi teatrali. Tutte possibilità negate se fossi rimasta”.
Eduardo C., 33 anni, laureato in Tecnologie alimentari, lavora a Bruxelles, si occupa di agricoltura biologica: “Lavorare in Italia sarebbe stato complesso, per ottenere puntualità nei pagamenti e anche rispetto per la professionalità altrui. All'estero è tutto diverso: i giovani sono valorizzati, c'è più possibilità di fare carriera e si viene coinvolti nei processi decisionali”. Eduardo vive in Belgio dal 2008, è un cervello in fuga. “Ho provato a rientrare ma poi ho deciso di ripartire. Sono scappato per gli stessi motivi che mi avevano indotto a lasciare la mia città la prima volta. Quando sei giovane devi sopportare e subire determinate cose. Retribuzioni da operaio anche se sei un professionista, precariato senza fine, lavori senza programmazione e strategia che quindi portino a una prospettiva di crescita non solo personale ma anche progettuale”.
Ascoltate ora Mario O., 33 anni, vive in Svizzera a Ginevra. È direttore delle politiche sanitarie di un'associazione industriale che rappresenta l'industria farmaceutica mondiale presso l‘ONU, governi e società civile: “Se sei impegnato nelle relazioni internazionali andare via è l'unica soluzione. Nel nostro Paese manca di competitività e visione strategica che, come pilastro, prevede proprio l'investimento sui giovani”. Confessa nostalgia, “ma è difficile attrarre così chi è già andato via che rischierebbe di essere risucchiato in un circolo vizioso, se il sistema non cambia”.
E’ 'fuga di cervelli' anche tra i manager: un migliaio l'anno, espatriano per lavoro e sono più di 10 mila quelli che già lavorano stabilmente oltreconfine. Un fenomeno in crescita e preoccupante, evidenziato da un'indagine di “AstraRicerche” per Manageritalia e Kilpatrick, svolta a settembre 2013 e a cui hanno risposto via web 447 manager espatriati dei 1.500 interpellati. Emerge che i manager per lo più vanno all'estero volutamente (93%), concordandolo con l'azienda nella quale operano in Italia (49%) o cercandone una che offra quest'opportunità (44%). Perché ormai andare all'estero è un obbligo. Si va all'estero per cogliere possibilità professionali più stimolanti di quelle presenti in Italia (51%), fare un'esperienza internazionale (38%), perché è passaggio obbligato per fare carriera in azienda (24%). C'è anche chi è stato obbligato dal non aver trovato opportunità interessanti in Italia (27%) o da motivi personali/familiari (9%). Solo il 5% quelli che erano già all'estero per motivi di studio e sono poi restati lì in pianta stabile.
Se professionalmente l'estero è un Eldorado, i dirigenti espatriati rimpiangono la vita in Italia. Il 97% è molto (75%) o abbastanza (22%) soddisfatto del lavoro, l'87% della vita personale, l'81% delle relazioni. Per gli intervistati all'estero c'è più meritocrazia in tutti gli ambiti (86%) e è più facile fare carriera per merito e senza avere particolari conoscenze (79%), che valgono e si usano in relazione al merito e all'esperienza delle persone (79%). Bocciata sul fronte lavorativo, l'Italia resta comunque per i manager espatriati il più bel Paese dove vivere (84%), tant'é che vorrebbero che il Paese dove vivono oggi la prendesse ad esempio per molti aspetti della vita sociale (80%). Ma poi riemerge con forza l'attualità, tant'é che si afferma che nell'Italia di oggi non ci sono prospettive ne' a livello economico ne' a livello sociale per pensare di tornare (83%).
Nonostante questo, quasi tutti tornerebbero in Italia durante la vita lavorativa (92%), alcuni certamente (44%) e altri forse (48%). I principali motivi per tornare sono però quasi solo affettivi: per un riavvicinamento alla famiglia (57% d'origine) e/o per la qualità della vita (45%). Poco più di un terzo (37%) quelli che tornerebbero per opportunità professionali.
A detta degli intervistati all'estero, indipendentemente dal paese o continente di appartenenza, i manager sono ritenuti una componente importante della classe dirigente (96%), sono una delle professioni più ambite dai giovani (76%) e hanno ruolo e voce in capitolo nel definire le scelte economiche del paese (65%). A questo si aggiunge che c'è una netta distinzione tra top manager della finanza e la generalità dei manager (72%). Insomma, un altro mondo rispetto all'Italia. Sempre riferendosi al paese estero dove vivono oggi, meno della metà (40%) afferma che i top manager hanno una pessima reputazione, mentre solo l'11% dice che i manager in generale abbiano una pessima immagine presso la gente comune. Ci riavviciniamo un po' all'Italia parlando del settore pubblico che all'estero denota per i manager una certa intercambiabilità professionale con quello privato (52%), e un'immagine non eccelsa, tant'é che solo nel 46% dei casi si ritiene che i manager pubblici siano validi e stimati (46%).
"L'indagine ha ben inquadrato la realtà: l'Italia non è più un mercato appetibile per le aziende estere e anche per quelle italiane, poche purtroppo, più competitive sta diventando sempre meno prioritario. Così per i manager le opportunità professionali sono quasi solo all'estero con aziende multinazionali o nazionali che dall'Italia li trasferiscono negli head quarter mondiali o nei mercati in forte crescita". Così Cristina Spagna, general manager di Kilpatrick, commenta i dati emersi dall'indagine di AstraRicerche (per Manageritalia e Kilpatrick) sul fenomeno della 'fuga dei cervelli' tra i manager. "Riceviamo tantissime richieste di manager italiani da portare all'estero – dice Spagna – a riprova della buona fama che i nostri manager hanno a livello internazionale, ma anche delle sempre minori opportunità che l'Italia offre. Ormai anche noi lavoriamo quasi solo per mandare manager all'estero, mentre per rilanciare l'economia e il Paese tanti di quei manager che sono oggi all'estero dovremmo riportarli in patria nelle nostre aziende. Magari favorendo anche un maggior ingresso di manager esteri".
"La situazione è grave. E' un bene che in un mondo sempre più globale gli italiani in genere vadano all'estero. E' però un male quando questo avviene perché da noi non ci sono opportunità e prospettive e quando il viaggio è quasi obbligatoriamente di sola andata". Lo dice Guido Carella, presidente Manageritalia, commentando i dati emersi dall'indagine sul fenomeno della 'fuga dei cervelli' tra i manager. “Dobbiamo invertire questo trend – aggiunge Carella – perché il Paese ha tutto per rilanciarsi e per sconfiggere quel declino, anche mentale, che ci sta attanagliando, ma possiamo e dobbiamo farlo contando soprattutto sui talenti e i manager, come i giovani, i ricercatori, che sono tra questi in prima linea. La cosa che mi ha colpito di più è l'immagine e il ruolo riconosciuto ai manager a livello economico e sociale all'estero, nei paesi dove i dirigenti espatriati lavorano e risiedono. L'opposto di quell'immagine stereotipata e falsa che riscontriamo nel nostro paese. Un vissuto, il nostro, che non si basa sulla realtà ma è fatto di luoghi comuni e di un'atavica resistenza a riconoscere ruolo e valore al management, a quei manager che non vanno tutti i giorni sui giornali, ma in azienda e sul mercato a competere e spesso con successo. E ne vediamo e paghiamo le conseguenze con troppe organizzazioni e aziende che, prive di una vera gestione manageriale, fanno acqua da tutte le parti”.