“Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta…….siam pronti alla morte, l’Italia chiamò”. Sfilano le immagini: uno accanto all’altro, abbracciati, cantano a squarciagola, perlopiù starnazzando. I loro visi sono concentrati sulle parole e sull’imminente partita. La maglia azzura è inconfondibile. Sono gli azzurri, i nostri azzurri. C’è la nazionale che gioca, seppur in amichevole. E quando gioca la nazionale, soprattutto nei campionati mondiali, l’Italia si ferma e sembra essere più compatta che mai. Quando gioca la nazionale di calcio, le strade si svuotano, i bar si riempiono, tutti insieme pronti a tifare, a gioire per la vittoria oppure a intristirsi per la sconfitta.
Eppure l’altra sera, vedendo l’amichevole giocata con la Nigeria (per la cronaca pareggiata 2-2), non è stato l’evento sportivo ad interessarmi di più, quanto qualcos’altro. Leggo i nomi dei giocatori titolari e vedo le loro facce: Angelo Ogbonna, ragazzo di colore nato in Italia da genitori nigeriani. Thiago Motta, brasiliano a tutti gli effetti, ha tuttavia la doppia cittadinanza e sceglie di giocare con la nazionale italiana. Mario Balotelli, ragazzo anche lui di colore, nato da genitori ghanesi, è nato a Palermo e cresciuto in Lombardia, in quanto dato in adozione all’età di tre anni ad una famiglia di Brescia, i Balotelli appunto. Poi ancora Giuseppe Rossi: verrebbe da dire l’italiano medio con quel nome e cognome. Invece, nasce negli Stati Uniti: a Teaneck, vicino New York e poi cresce nel New Jersey fino all’età di dodici anni. Se in Italia esiste il cosidetto problema della fuga dei cervelli o comunque quello dei rientri, di certo non possiamo parlare allo stesso modo di fuga o di rientro dei “piedi”. I buoni giocatori infatti in Italia ci vengono volentieri, anzi lo stivale è meta prediletta. Così il bravo Giuseppe Rossi, dai piedi buoni, va in Italia e lì comincia la sua importante carriera calcistica.
Diciamoci la verità, vederli cantare: “siamo pronti alla morte, l’Italia chiamò”, mi fa un po’ sorridere. Io li considero italici, ma questo poco importa, giustamente, a chi fa i tornei di calcio, dove partecipano le nazionali di calcio, che ancora ci ricordano un mondo diviso in Stati-nazione anche se nelle loro squadre ci sono mescolamenti di ogni genere: turchi, polacchi, italiani e ghanesi di origine, ad esempio, nella nazionale tedesca, per non parlare di quella inglese e francese. E che dire di quella argentina e brasiliana. I fratelli Boateng giocano per due squadre diverse: Kevin Prince è tedesco, ma anche ghanese, e gioca nella nazionale ghanese; il fratello Jerome è tedesco e gioca a tutti gli effetti nella nazionale tedesca.
Tutto questo mi ricorda quei fratelli che durante la prima guerra mondiale si trovavano a combattere su schieramenti diversi, ad esempio, quello americano e quello italiano. Non tanto perché uno dei due non era emigrato negli Stati Uniti, ma perché aveva deciso di ritornare e prendere le armi in Italia.
Insomma il quadro è molto complesso. Siamo anche consapevoli che il fatto sportivo, cioè il poter giocare le competizioni internazionali sia vetrina fondamentale per un giocatore, che decide anche in base a quanto spazio abbia in una squadra o in un’altra. Tuttavia, mi sembra che la direzione sia sempre più evidente, si deciderà chi far giocare nella propria nazionale tramite atto istituzionale, magari forzato, proprio perché se ne può trarre vantaggio sportivo e di immagine e anche perché nella confusione delle appartenenze meglio forzare le forme e mettere un timbro su un pezzo di carta.
Ma senza nulla togliere alle forme, importanti, a noi interessa, innanzitutto, il contenuto. Tutto questo ci fa invece riflettere su come in realtà i confini siano più fluidi. Le identità e le appartenenze stiano mutando molto più di quanto pensiamo, sbattendoci in faccia, a volte inaspettatamente, la realtà: basta guardare una partita di calcio.
Ciononostante ricordo ancora quando gli azzurri, prima della chiamata al canto obbligatorio durante la presidenza Ciampi, si tenevano abbracciati. Nessun’altro lo faceva. Solo loro con gli occhi pieni di orgoglio in quel gesto di umana vicinanza e fratellanza. Avvolta al corpo la maglia azzurra senza nessun richiamo al tricolore. L’azzurro che rimanda quasi certamente al colore dei Savoia, ma a me piace pensare ad una delle ipotesi leggendarie più paventate: è il colore del Mare Nostrum. Gli azzurri, tifati da tutti: oriundi e stranieri; probabilmente una delle nazionali più tifate nel mondo: per amore delle origini, per amore della cultura italica, oppure per semplice simpatia.
Allora, se proprio lo vogliamo cantare questo inno, facciamolo diventare, come questa rubrica, politicamente scorretta: “fratelli nel mondo, l’Italia s’è desta….siam pronti a giocare, l’Italia chiamò”.