Le critiche di Alexandria Ocasio-Cortez a Kamala Harris, dopo che la vicepresidente ha invitato i potenziali migranti guatemaltechi a restarsene a casa perché altrimenti sarebbero stati respinti alla frontiera statunitense, muovono da un malinteso che caratterizza i progressisti da decenni. Scaturiscono, infatti, dalla presunta identità tra gli Stati Uniti come nazione di immigrati e gli Stati Uniti quale terra di accoglienza degli stranieri. È innegabile che, come affermava il programma elettorale del partito democratico nel 2020, gli statunitensi che non discendono da nativi americani o dagli schiavi africani importati con la forza hanno antenati che scelsero di immigrare “alla ricerca di nuove opportunità e di una nuova vita”. Tuttavia, è altrettanto incontrovertibile che gli Stati Uniti non hanno incoraggiato l’immigrazione libera e indiscriminata almeno dal 1882, quando il Congresso varò il Chinese Exclusion Act per sospendere l’ingresso dei cinesi, inizialmente per dieci anni, prorogati nel 1892, prima di una messa al bando a tempo indeterminato varata nel 1902.

Il principio della selettività degli ingressi è così radicato nella storia del Paese da essere stato formulato ancor prima che gli Stati Uniti si costituissero in nazione sovrana nel 1776. Già alla metà del Settecento, nelle sue Observations Concerning the Increase of Mankind, uno dei padri della Patria, Benjamin Franklin, si fece interprete delle prime richieste di filtrare gli arrivi, segnalando il rischio che, se non fossero stati frenati gli sbarchi di persone provenienti dalla Germania, la Pennsylvania, un insediamento fondato dagli inglesi, si sarebbe trasformata in una colonia di tedeschi che, invece di farsi anglicizzare, avrebbero germanizzato la popolazione esistente con la diffusione della loro lingua e delle loro usanze.

Certo, nel tempo sono cambiate le categorie degli indesiderati: gli asiatici alla fine dell’Ottocento, gli anarchici all’inizio del Novecento, gli europei di ascendenza non anglosassone nel primo dopoguerra, i comunisti durante la guerra fredda, i mussulmani e i mediorientali dopo l’11 settembre. Lo sanno bene gli italiani, che furono deliberatamente penalizzati dal sistema delle quote nazionali per la concessione dei visti, introdotto nel 1921 e perfezionato nel 1924. Si videro assegnati appena 3.842 visti ogni anno nel 1924, poi innalzati a soli 5.802 nel 1929, rispetto agli oltre 300.000 sbarchi dall’Italia registrati nel 1919. Tale normativa non soltanto pose fine all’immigrazione di massa dall’Europa. Discriminò anche gli individui originari dell’Europa orientale e meridionale, in quanto ritenuti inassimilabili e dunque sgraditi, assegnando loro una quota irrilevante, come avvenne per gli italiani.
Sebbene gli immigrati cinesi siano tornati a essere ammessi nel 1943 e il sistema delle quote nazionali sia stato abrogato nel 1965, selettività e contingentamento sono rimasti anche in seguito il fondamento della politica degli Stati Uniti in materia di immigrazione.

Con buona pace di Alexandria Ocasio-Cortez non esiste neppure una consolidata tradizione di accoglienza dei rifugiati. Basti pensare al fatto che è stato soltanto con il Refugee Act del 1980 che gli Stati Uniti hanno introdotto nel loro ordinamento il diritto di asilo, adottando la definizione di rifugiato formulata delle Nazioni Unite quasi un terzo di secolo prima, con una convenzione del 1951, come la persona alla quale è precluso il rimpatrio a causa di persecuzioni, o rischio fondato di persecuzioni, per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza a un particolare ceto sociale o opinioni politiche. La legge del 1980 è stata anche applicata in modo selettivo in base alle esigenze della politica estera di Washington, privilegiando per motivi propagandistici e ideologici i profughi provenienti da Paesi comunisti. Ancora nel 1992, a guerra fredda ormai terminata, gli Stati Uniti accolsero il 96% delle richieste di asilo degli esuli cubani, che fuggivano dal regime castrista, ma respinsero l’89% di quelle dei profughi haitiani, che scappavano dall’altrettanto efferata dittatura di Jean-Claude Duvalier. Questi ultimi, infatti, furono in larghissima maggioranza considerati migranti economici per la natura conservatrice, anziché marxista, del governo di Port-au-prince.

D’altra parte, le riforme del New Deal di Franklin D. Roosevelt, che per numerosi commentatori rappresenterebbero un modello per le politiche di intervento federale del presidente Joe Biden, non introdussero alcuna deroga al contingentamento dei visti di immigrazione per aprire le porte degli Stati Uniti soprattutto agli ebrei in fuga dall’antisemitismo nazista prima e fascista poi. Il caso più efferato, nella primavera del 1939, riguardò gli oltre 900 esuli ebrei tedeschi che si trovavano a bordo della nave St. Louis. Dopo essere stati respinti da Cuba, prima di dover invertire la rotta e tornare in Europa, mentre erano a poche miglia dalla costa della Florida, si rivolsero a Roosevelt per chiedere la concessione di un visto straordinario per motivi umanitari che consentisse loro di sbarcare negli Stati Uniti. Ma il presidente restò sordo al loro appello e il Dipartimento di Stato rispose che avrebbero dovuto aspettare il proprio turno per l’assegnazione del contingente di visti attribuito ai cittadini della Germania, una condizione giuridica che di fatto gli ebrei avevano perduto con le leggi di Norimberga del 1935.

La politica di Roosevelt attesta la storica condivisione del contenimento dell’immigrazione da parte dei democratici. Del resto, tra il 2009 e il 2013, sotto la presidenza di Barack Obama, gli Stati Uniti hanno deportato più clandestini di quanti erano stati espulsi complessivamente sotto le due precedenti amministrazioni del repubblicano George W. Bush. Il calo dei rimpatri forzati a partire del 2014 fu dovuto principalmente a un accordo di collaborazione con il Messico per frenare l’ondata di miranti irregolari che transitavano attraverso questo Paese nel tragitto verso gli Stati Uniti. L’intesa prevedeva che il governo messicano avrebbero intercettato e rimpatriato tutti quei centroamericani che erano cittadini di altre nazioni e non avevano i documenti per entrare legalmente negli Stati Uniti prima che varcassero il confine e passassero, quindi, sotto la giurisdizione di Washington. Lo stesso Obama, al tempo senatore federale dell’Illinois, nel 2006 aveva votato a favore del Secure Fence Act, la legge che stanziò i fondi per la costruzione di una prima barriera divisoria al confine tra Stati Uniti e Messico, lungo le 700 miglia più porose della frontiera, ponendo le premesse di quello che sarebbe divenuto il progetto di “muro” ipotizzato successivamente da Donald Trump. Il Secure Fence Act aveva ricevuto il sostegno anche di Hillary Clinton, allora senatrice dello Stato di New York.

Tutti ricordano i celeberrimi versi del poema The New Colossus di Emma Lazarus, scolpiti sul piedistallo della Statua della Libertà:
Give me your tired, your poor,
Your huddled masses yearning to breathe free,
The wretched refuse of your teeming shore.
Send these, the homeless, tempest-tost to me.
I lift my lamp beside the golden door.
Alla luce dei provvedimenti adottati dagli Stati Uniti sull’immigrazione a partire dall’ultimo ventennio dell’Ottocento, più che un’esternazione dell’ospitalità americana le parole di Lazarus possono essere lette come un auspicio – inascoltato dalle istituzioni – per la formulazione della normativa di Washington. Gli Stati Uniti si fanno un vanto di essere la terra delle persone libere, come recita il loro inno nazionale. Ma, da quasi un secolo e mezzo, non sono il Paese dell’accoglienza. La lampada ricordata da Lazarus si è accesa solo a intermittenza, generalmente in base a considerazioni politiche anziché umanitarie, e le dichiarazioni di Kamala Harris sono perfettamente in linea con questo orientamento.
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