A Washington Square Park, nel cuore del Village, si avverte un’energia che riecheggia la Women’s March del 21 di gennaio scorso. Sono passati quasi due mesi da quando io, Mario, Inés e Julio, rispettivamente un’italiana, un messicano, una spagnola di Madrid e un dominicano da poco naturalizzato americano, ci siamo avventurati, insieme a tante altre migliaia di persone provenienti da ogni angolo degli Stati Uniti, nelle strade della capitale americana per partecipare ad un evento che – lo sapevamo già – avrebbe fatto la storia.
In piazza, l’otto marzo come quel 21 di gennaio, ci sono molte, moltissime donne. In tante indossano il famoso cappellino rosa con le orecchie feline, “pussyhat”, un’ironica provocazione contro le asserzioni misogine del Presidente nei confronti delle donne, alcune sono vestite in rosso, secondo i suggerimenti delle organizzatrici, ma soprattutto a colpire è la varietà, rispetto ad età, nazionalità ed etnia delle manifestanti scese in piazza in occasione di questo International Women’s Strike NYC: Rally and March on March 8th. Ci sono donne “white” che tengono in mano il cartello “Black lives matter”, signore di ottanta anni che hanno partecipato alle grandi proteste degli anni ’60, bambine in passeggino o a cavalcioni sulle spalle delle mamme, piccole ma già in grado di ripete alcuni slogan che risuonano nell’aria, da “I’m muslim too”, “My body, my choice”, “Whom streets, our streets.”
Sul palco posizionato alle spalle del famoso arco, icona di Washington Square Park, si susseguono, una dopo l’altra, tante donne di cultura ed estrazione differente, femministe, artiste, rappresentanti di associazioni di lavoratori, di migranti, etc. Il microfono gracchia di tanto in tanto, facendo perdere alcune parti dei discorsi. Le manifestanti rispondono con cori impazienti. “Let’s march! Let’s march!” E finalmente, attorno alle 6 p.m. si inizia a marciare, con l’obiettivo di arrivare a Zuccotti Park, facendo sosta in alcuni luoghi simbolici, come il centro di detenzione a Varrick Street e il cimitero africano. Le palestinesi aprono la marcia, e tra loro, in prima fila, vi sono anche donne non palestinesi che tengono in mano cartelli a sostegno delle “Palestinian Sisters”.
“Sotto l’occupazione di Israele, le donne palestinesi solo la parte della popolazione più oppressa,” afferma Souphy, quando le domando per cosa manifestano oggi, qui a New York, le donne palestinesi, oltre che alla causa comune del genere femminile. “La donna ha zero diritti sotto il regime di Israele”.
Chiedo a Souphy se secondo lei la First Lady Melania Trump sosterrà nei fatti i diritti delle donne nei prossimi anni di legislatura. “Io credo che Melania, ma anche Ivanka e le ‘donne’ di Donald Trump, sono a loro volta vittime della misoginia imperante. La misoginia è sempre esistita, ma è emersa in tutte le sue forze con Trump. Le donne di questo governo non saranno in ogni caso le salvatrici di noi altre donne comuni”.
Mi avvicino ad un gruppo di donne sull’ottantina, mi presento e chiedo loro a quante manifestazioni hanno partecipato fino ad oggi. Giorgia, di New York, mi risponde che ha perso il conto, ma che di certo erano tutte nel 1963 alla Grande Marcia di Washington ad ascoltare il celebre discorso di Martin Luther King Jr., ed erano sempre, a fianco del dr. King, parte del Chicago Freedom Movement a protestare a favore dei diritti all’educazione, alla casa, alla salute pubblica.
“Nella violenta protesta del 1963, organizzata dal SNCC, Student Non Violent Coordinating Commitee, di cui facevo parte, ci furono morti e feriti. Il SNCC era una delle più importanti organizzazioni degli anni ’60 per i diritti sociali, e si lottava soprattutto per allargare il diritto di voto agli afroamericani” racconta Lise, che se all’inizio era rimasta in disparte e mi guardava con diffidenza, si è unita in seguito con passione alla conversazione, soprattutto dopo che raccontai loro l’esperienza di mio nonno, che fu prigioniero politico in un campo di concentramento tedesco durante la Seconda guerra mondiale.
Senza troppi giri di parole chiedo loro se non sono stanche di lottare da tutti questi anni per un mondo migliore, per poi vedere che spesso le conquiste in ambito dei diritti sembrano fare passi indietro e rendere vane le battaglie di tante generazioni. “Eccome se siamo stanche!”, afferma Susan, che indossa un cappello rosa “pussyhat”. “Anche noi abbiamo avuto i nostri momenti di resa. Ma sono durati poco. Bisogna imparare a vivere nella lotta, senza paura. Che senso ha vivere se non ci si preoccupa per il bene, non solo di noi stessi, ma delle minoranze, di chi non ha voce?”
Chiedo infine alle tre donne di quali associazioni o organizzazioni politiche facciano parte, e tutte e tre si mettono a ridere. “Ognuna di noi fa parte almeno di cinque associazioni. Vuoi appuntartele tutte?”
Sebbene in minoranza, tra i manifestanti vi sono molti uomini. Derrick e Peter, 37 e 46 anni, un avvocato e un ingegnere, uno di Los Angeles e l’altro di New York, sono qui per dare supporto alle donne. “Le donne sono un gruppo vulnerabile”, afferma Derrick, “che è stato messo sotto attacco dal governo di Trump, oggi come mai in precedenza.” Derrick ritiene che tuttavia Trump sia solo la punta dell’iceberg e che dietro di lui ci sia qualche cosa di più inquietante e indecifrabile.
“Il problema non è Trump”, afferma con convinzione Lilian, una brasiliana che vive in Giappone ma che sta facendo un soggiorno di studio qui nella Grande Mela. “Trump non è assolutamente il problema. Piuttosto, ciò che mi preoccupa sono le persone che l’hanno votato, le persone a cui lui si rivolge, i suoi sostenitori, coloro che gli danno credito, ossia circa la metà dei statunitensi.”
Lilian è in compagnia di un altro studente internazionale sulla trentina, Jim, di Parigi. Jim tiene in mano un cartello con su scritto: “I’m a woman 2”, anche io sono una donna. “Ogni essere umano merita rispetto, che sia uomo o donna. Per questo io dico provocatoriamente che sono una donna, perché sono un essere umano. Che importa il sesso?” Annuisco, rimanendo meravigliata del fatto che siano scesi in piazza, a fianco dei newyorkesi e, in generale, degli americani, anche tanti europei, asiatici, sudamericani, etc. e di come la questione della donna, ma in generale politica americana sembri stare a cuore a tutti, a livello mondiale, senza distinzione di nazionalità.
Un gruppo di ragazzi e ragazze sui venticinque anni, parlanti spagnolo, ma originari del Sud America, oltre che della Spagna, sono venuti a posta da Princeton per manifestare qui a New York City alla Women’s March. Berta, la portavoce del gruppo afferma che il problema di fondo è il capitalismo. “Certo, se poi al capitalismo ci affianchiamo anche un misogino al potere, tutto diventa più complicato”.
Nel domandare ai manifestanti che impatto avrà questa manifestazione sulla politica americana, leggo nei volti un certo disagio. La lotta è lunga, e non sembra destinata a finire domani, è questo il parere di molti. Kate, sui 35, di Philadelphia, mi parla mentre tiene in braccio una bimba di poco più di un anno, dagli occhi grandi e vivaci. “Vivo a New York City da 12 anni e lavoro per un’organizzazione LBGT ed ero anche a Washington lo scorso gennaio. Io credo che questa marcia sia un tassello di un movimento che sta portando a un cambiamento radicale ma lento. Non è un singolo evento, una singola manifestazione, che cambia le cose, ma un insieme di fattori concatenati: la gente che scende in piazza, gli amici che ne parlano, le persone che mettono dei posts sui social networks, etc. Tutto questo crea il cambio, ma ripeto, questo non viene in un giorno solo.”
Kate, nel parlarmi, tiene la figlia stretta in un abbraccio dolce e protettivo allo stesso tempo, come se il futuro stesse lì, tra le sue braccia, insieme alla bimba. Quel futuro di sua figlia e dell’America, che le sta tanto a cuore.
Qui di seguito un video della giornata di manifestazioni a New York. Il video è il secondo progetto di WOPS, un collettivo appena nato che mette insieme filmmaker, scrittori e ricercatori (tra cui diversi italiani) e documenta, senza scopo di lucro, il lavoro di movimenti dal basso che stanno emergendo nella società americana come reazione all’elezione di Trump.