Museo di Visso, Macerata, Palazzo dei Governatori: qui sono custoditi 27 manoscritti del grandissimo poeta Giacomo Leopardi (1798 Recanati – 1837, Napoli ): sei idilli, cinque sonetti, l’Epistola al Conte Carlo Tiepoli, quattordici lettere scritte tra il 1825 e il 1831 all’editore milanese Stella e un commento alle rime del Petrarca. Tra gli idilli, c’è anche una seconda stesura de L’ infinito, mentre l’originale di questa lirica si trova ben protetto al Museo Nazionale di Napoli.
Già dopo l’inferno del 24 agosto 2016, l’intera struttura era rimasta compromessa, ma in seguito alle ultime scosse, grande parte della costruzione è crollata (il Museo Diocesano si trova nella chiesa di Sant’Agostino del XIV secolo che sovrasta il Palazzo dei Governatori). Per buona sorte i manoscritti sono rimasti illesi, ma in breve verrà avviato il loro trasferimento a Bologna, grazie alla generosa disponibilità del sindaco Virginio Merola.
Ma perché proprio a Bologna? Il rapporto tra Leopardi e Bologna parte da lontano. Nel 1868, Prospero Viani, preside dell’illustre Liceo Galvani di Bologna, collezionista e proprietario di queste “sudate carte”, come amava definirle il Leopardi stesso, a causa di un forte disagio economico, decise di venderle, ricavandone 400 lire. Così scrisse: “…con grave dolore abbandono altrui queste preziose carte e mi sarà solo in parte attenuato se passeranno nelle mani di persone che le sappiano pregiare e conservare…”
Ad acquistarle fu proprio il comune di Visso, nella persona del sindaco Antinori. In tal modo la seconda stesura dell’Infinito ritornò, per volere del destino, nelle Marche, la patria del sommo Giacomo Leopardi. Come se il Poeta da morto avesse desiderato richiamare la sua creatura a sé, come un padre con un figlio, per quel significato ineffabile, inspiegabile attraverso parole umane, di disorientamento, straniamento, perdita di punti di riferimento che nessuna lingua al mondo riesce ad esprimere, ma che si coglie solo come sensazione, e solo da parte di spiriti particolarmente eletti, come recitava il grandissimo Francesco Petrarca in Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. La poesia e l’amore possono essere compresi fino in fondo solo “…da chi per prova intenda amore” (cioè da chi è talmente sensibile da avere sperimentato in prima persona il sentimento d’amore e le sofferenze che infligge).
E così è avvenuto anche per i versi di Leopardi: “...Ma sedendo e mirando, interminati / Spazi di là da quella, e sovrumani / Silenzi, e profondissima quiete / Io nel pensier mi fingo; ove per poco / Il cor non si spaura…“ (da L’infinito).
Rendere fino in fondo a parole il significato profondo di quello che vuole comunicarci l’autore è difficile: possiamo solo avvicinarci, mai raggiungere la verità. Mente e cuore, abituati a vivere nel finito, quasi si perdono nell’infinito. L’Uomo ha veramente paura! L’esperienza descritta nei versi è quella dello smarrimento di sé e del contatto con il mondo circostante, con la realtà; la riflessione, la meditazione, la razionalità, le filosofie crollano, vanno in frantumi, tutti i progetti, i buoni propositi, le proiezioni da noi create sul futuro lasciano il posto alle reazioni emotive, allo sgomento, al panico.
E così avviene quando conduciamo le nostre esistenze mortali ogni giorno, convinti che sarà sempre così, ma ad un tratto sopraggiunge l’inspiegabile, l’incredibile e noi tutti precipitiamo nel buio, nel baratro dell’incomprensibile, dell’irrazionale e perdiamo ogni nostra certezza, ogni nostra sicurezza, entriamo in una dimensione mai vissuta fino ad oggi nella grandiosità spaziale e nell’immensità del tempo e siamo persi, ci sentiamo soli, come se fossimo tornati alla prima infanzia, ma senza nessuno accanto che ci accudisca, come se ci trovassimo completamente privi di memoria, senza ricordo alcuno del passato in una stanza del tutto e fossimo ciechi…
“L’infinito è ciò che è sospeso perciò che esclude l l’ordine e la determinazione…” – Platone.