Come testimoniano gli antichi poeti greci Omero nell’Iliade (VIII a.C.) ed Esiodo nella Teogonia (VIII a.C.), la dea Afrodite si era innamorata dell’avvenente e giovane troiano Anchise. Solo in seguito all’unione, la dea gli rivelò la sua vera identità e gli predisse che il loro figlio, Enea, sarebbe stato destinato a grandissima fama, a fondare cioé la civiltà romana che un giorno avrebbe dominato il mondo. Ma un giorno Anchise stesso ubriaco si vantò sfacciatamente del suo amore con la dea e Zeus, adirato terribilmente, per punirlo lo colpì con un fulmine ad un dito del piede, rendendolo zoppo. Questo episodio non appartiene solo alla mitologia, ma rappresenta uno dei primi riferimenti scritti alla gotta. Tale patologia (chiamata anche podagra) infatti colpisce con dolori lancinanti, gonfiore e rossore le articolazioni dell’alluce del piede.
Sappiamo che presso gli antichi Egizi era presente questa malattia come risulta dagli studi su alcune mummie risalenti al 4000 a.C..

Cosa significa esattamente “gotta”? La parola deriva dal latino “gutta”, “goccia” e fa riferimento ad un’ infondata credenza medioevale in base alla quale un liquido, un umore in eccesso, precipitando sopra un’articolazione o scorrendo al suo interno procura il caratteristico e inconfondibile dolore. Anche il padre della medicina greca Ippocrate (460 a.C./377 a.C.) aveva ritenuto che a causare la malattia fosse uno squilibrio dei quattro umori corporei che provocava il ”gocciolamento” di uno di essi nelle articolazioni.
Ancora una volta la mitologia greca si è mostrata lungimirante: nell’Odissea di Omero, a proposito di un’altra malattia, la “tubercolosi” si parla di “…odiosa consunzione che dalle membra strappava la vita e costringeva a giacere malati, deperendo a lungo…”. Sempre Ippocrate riuscì a definirne i sintomi e anche la fascia di età che la patologia colpisce maggiormente (18-35 anni), ma errò ritenendola un morbo ereditario.
Ma qual è l’origine della parola “tubercolosi”? I Greci la definivano “phthìsis” “deperimento”, ma non è questa l’etimologia. Il termine deriva infatti dal latino “tuberculum” “piccolo tumore, piccolo rigonfiamento”. Le più antiche testimonianze di tubercolosi in un corpo completo riguardano alcune mummie egizie che presentano le tipiche deformità spinali, delle gibbosità, raffigurate anche nell’arte. Queste si formano man mano che la colonna vertebrale si deteriora a causa di infezioni.
La tubercolosi, come anche altre patologie definite di “massa”, quali ad esempio colera, influenza, vaiolo, malaria, schistosomiasi o bilarziosi, si diffusero quando l’Uomo formò delle comunità stanziali agricole, mentre quando ancora viveva in luoghi isolati soffriva perlopiù di malattie ereditarie o di fratture, traumi da impatto, perdita di arti. La bilarziosi, ad esempio, è una malattia parassitaria, che insorge per contatto con l’acqua infetta, causata da un verme piatto le cui uova invadono e aggrediscono le vie urinarie provocando ematuria (sangue nelle urine).
Sappiamo che colpì fin dai tempi più remoti: sono state trovate uova calcificate in mummie appartenenti addirittura al 1250 /1000 a.C. Il suffisso “-osi”, che compare così spesso nella terminologia medica, viene dal greco “-òsis”, e indica “spinta, urto”.
Altre malattie comuni presso gli Egizi erano: malnutrizione e rachitismo, patologie proprie della popolazione più povera; obesità (dal latino “ob” “per, a causa di” e “édere” “mangiare”) dovuta all’assunzione eccessiva di cibo; vene varicose, causate spesso dalla temperatura climatica elevata; anche gli occhi, tra sabbia e acqua del Nilo, andavano soggetti a congiuntiviti (il suffisso “-ite” dal greco “-ìtes”, che rimanda a sua volta ad “itamòs”, significa ‘impetuoso, ardito, sfacciato’ quindi un eccesso, in questo caso un’alterazione delle condizioni normali, un’infiammazione) e il tracoma (dal greco “trachys” “aspro, duro” con riferimento ad asperità e durezze sulla superficie delle palpebre) era molto diffuso, viste le numerose raffigurazioni di individui ciechi. La sabbia del deserto inoltre, se inalata, causava malattie respiratorie e se masticata, insieme con gli alimenti, usurava i denti causando parecchie dolorose patologie. Da ultimo, l’arteriosclerosi (dal greco “arterìa” “arteria, vena, trachea” e “skleròs” “duro”, “rigido”) dovuta probabilmente alla grande quantità di sale usata per la conservazione dei cibi, o per l’assunzione di carni grasse come l’oca e l’anatra, o per la scarsa attività fisica, abitudine di comportamento per i ceti elevati.

I medici egizi visitavano il malato accuratamente ed una volta fatta la diagnosi prescrivevano la terapia contro il dolore: tra i principali rimedi troviamo vegetali come ginepro, alloro, sicomoro, cocomero, uva, salice, il miele per le malattie respiratorie e per le ustioni, ma anche la bile degli animali per lenire il dolore agli occhi e la carne per curare le ferite. Tra i minerali erano preferiti il sale comune e la malachite contro le infezioni agli occhi. Si usavano regolarmente l’oppio come analgesico, la cannabis, l’elleboro bianco.
Omero definiva i medici egizi “i più esperti” (Odyssea,4, 229-232) “la terra (Egitto) là produce moltissimi farmaci, molti buoni… e ognuno vi è medico, esperto al di sopra di tutti gli uomini”.
Concludo proponendo alcuni versi tratti dal poeta greco Mimnermo di Colofone ( VII a.C.) il quale ci trasmette un messaggio importante: possiamo essere esenti per nostra sorte da malattie, ma la felicità per l’uomo non esisterà mai perché interverranno sempre altri motivi che disturberanno la nostra quiete.
“Come le foglie”
Come le foglie che fa germogliare la stagione di primavera
ricca di fiori, appena cominciano a crescere ai raggi del sole,
noi, simili ad esse, per un tempo brevissimo godiamo
i fiori della giovinezza, né il bene né il male conoscendo
dagli dèi. Oscure sono già vicine le Kere,
l’una avendo il termine della penosa vecchiaia,
l’altra della morte. Breve vita ha il frutto
della giovinezza, come la luce del sole che si irradia sulla terra.
E quando questa stagione è trascorsa,
subito allora è meglio la morte che vivere.
Molti mali giungono nell’animo: a volte, il patrimonio
si consuma, e seguono i dolorosi effetti della povertà;
sente un altro la mancanza di figli,
e con questo rimpianto scende all’Ade sotterra;
un altro ha una malattia che spezza l’animo. Non v’è
un uomo al quale Zeus non dia molti mali.
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