“Il re in persona (Alessandro Magno) andò da lui (Diogene) e lo trovò che stava disteso al sole. Al giungere di tanti uomini egli si levò un poco a sedere e guardò fisso Alessandro. Questi lo salutò e gli rivolse la parola chiedendogli se avesse bisogno di qualcosa e quello: “Scostati un poco dal sole”. A tale frase si dice che Alessandro fu così colpito e talmente ammirò la grandezza d’animo di quell’uomo, che pure lo disprezzava, che mentre i compagni che erano con lui, al ritorno, deridevano il filosofo e lo schernivano, disse: “Se non fossi Alessandro, io vorrei essere Diogene”. Plutarco (46 – 125 d.C.) “Vite parallele- Vita di Alessandro”
Dal nome di questo personaggio, Diogene, che ebbe la fortuna di incontrare personalmente il nobile Alessandro Magno, deriva la “Sindrome di Diogene”. Ma in cosa consiste, o meglio, cos’è una sindrome? Che cosa distingue dal punto di vista semantico ed etimologico una “patologia” da una “malattia”, da un “morbo” o da una “sindrome”?
“Patologia” deriva dal Greco “pàthos”, sofferenza, e “lògos”, pensiero, ragione, intelletto, mente, studio, scienza e indica l’indagine delle conseguenze sull’uomo o sugli altri esseri viventi (animali e vegetali) delle malattie contratte; nel gergo medico corrente il sostantivo è anche utilizzato informalmente come sinonimo improprio di malattia, di stato di sofferenza.
“Malattia” viene dal Latino “male aptus” da cui “malattus” “malatus”, malconcio e ridotto male, ma anche da “male actio”, azione gestita da parte del soggetto in maniera errata e che lo ha poi condotto allo stato di malattia. Se vogliamo, si tratta di una responsabilità attribuita al paziente delle condizioni precarie alle quali è giunto, magari poiché ha sottovalutato sintomi che invece avrebbero meritato di essere ascoltati.
“Morbo” deriva ancora una volta dal Latino “morbus”, sinonimo di malattia, termine oggi desueto e che nei secoli precedenti veniva inteso come malattia incurabile tant’è che, quando in passato ci si trovava di fronte ad una manifestazione di difficile o dubbia comprensione, spesso questa veniva chiamata “morbo”, seguito dal nome di chi l’aveva scoperta o descritta per primo, come il “Morbo di Alzheimer”, o di “Parkinson”.
Il termine “morbo”, pur se corretto, è attualmente un vocabolo poco usato per due ragioni fondamentali: per rispetto del malato in quanto parola piuttosto pesante e perché di alcuni “morbi” sono state trovate l’eziologia e la terapia. Una curiosità: l’italiano, oltre all’aggettivo di ambito medico “morboso”, conosce anche “morbido”, entrambi derivati dal latino “morbus”: in effetti la morbidezza è flaccidità dei muscoli e del corpo, ovvero debolezza, fragilità.
E arriviamo finalmente a “sindrome”. Questo termine è legato al greco “syn”, con, e “dròmos” corsa, e si riferisce a un insieme di sintomi che si manifestano simultaneamente.
Quindi, quando un disturbo ha una causa ben definita, si può parlare di malattia o di patologia, mentre se si verificano più segnali in concomitanza che non conducono ad un’unica motivazione, allora siamo di fronte a una sindrome. Ed eccoci alla sindrome di Diogene.
Chi ne è affetto tende a raccogliere e conservare una grande quantità di oggetti, di solito rifiuti, nella propria casa. Manifesta un’impossibilità a liberarsene, arrivando ad accatastarne sempre di più. A lungo termine, la mancanza di pulizia causata dall’accumulo, causa seri problemi di igiene, che possono compromettere la salute dell’individuo. Inoltre, coloro che ne soffrono a poco a poco vengono isolati dalla società, per un aumento dei conflitti interpersonali a causa del loro status. Ma perché proprio Diogene?
Diogene di Sinope (412 a.C./323 a.C.) era un filosofo greco che aveva fatto una scelta di vita radicale e difficile: pur nel pieno possesso delle proprie capacità mentali, aveva improntato la propria esistenza ad una totale frugalità, rifiutando persino di vivere in una casa, anche se umile, e sostituendo volentieri questa con una botte per desiderio di un ritorno alle origini, alla natura e alla semplicità. Per educare i suoi concittadini, scelse non solo di insegnare nelle strade, ma anche di manifestare i suoi valori ideali attraverso gesti simbolici. Ad esempio, quando vide un fanciullo che beveva ad una fonte usando soltanto le mani, abbandonò il suo bicchiere di legno, l’unico bene che ancora possedeva, ritenendolo inutile.
Diogene predicava che per giungere alla felicità e alla saggezza si dovesse evitare qualsiasi piacere fisico non necessario: bellezza, ricchezza, potere e gloria. Ciò che contava veramente, secondo il filosofo, erano la frugalità di vita e la ricerca continua della verità, valori che il progresso non poteva fare altro che ostacolare, togliendo libertà all’uomo e illudendolo con le sue false attrattive artificiali. Diogene era solito affermare: “L’uomo ha complicato ogni singolo semplice dono degli Dei”.
A causa di alcuni comportamenti troppo disinibiti, venne dai più aspramente criticato e chiamato con l’epiteto “Socrate pazzo”. Ma di fronte agli insulti il filosofo era solito rispondere“L’ingiuria disonora chi la fa, non chi la riceve“.
Oggi potremmo definire Diogene un anarchico ante litteram. Tra i primi ha avuto una visione cosmopolita della realtà (come il suo contemporaneo Alessandro Magno) per cui spesso diceva di sé “Sono cittadino del mondo”, andando contro la mentalità del tempo che imponeva di identificarsi con una polis.
A causa dei suoi atteggiamenti provocatori e della sua vita raminga venne soprannominato “il cane”, in greco “kyon”, cinico. Così racconta Diogene Laerzio (180 d.C./240 d.C.): “Durante un banchetto gli gettarono degli ossi, come a un cane. Diogene, andandosene, urinò loro addosso, come fa un cane”. Questa esortazione alla dignità della libertà, all’essenzialità del vivere quotidiano e all’autenticità di se stessi dovrebbe essere più che mai tenuta presente nella nostra società, caratterizzata sempre più da uno sfrenato consumismo e dall’omologazione.
Sappiamo che i Greci distinguevano tra “penìa”, povertà decorosa, e “ptochéia”, stato di abbandono. Sicuramente, nel caso del filosofo cinico Diogene, la scelta di vita aveva il fine di nobilitare la propria esistenza ponendole di fronte dei valori superiori ai beni mondani. La sofferenza di chi invece è affetto dalla sindrome abbruttisce le persone, le affonda, toglie loro quella dignità che è propria dell’uomo e che rappresenta la vera e unica ricchezza.
“Tutto appartiene agli dèi; i sapienti sono amici degli dèi; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa“.
(Diogene Laerzio, “Vite dei filosofi”, VI, 37)