È trascorso appena un anno da quando Donald Trump annunciò la sua candidatura alla presidenza degli Stati Uniti. Da allora, sull’onda del malcontento popolare che attraversa l’America del Terzo millennio, il magnate newyorkese ha letteralmente spazzato via come un ciclone tutti i suoi avversari, guadagnandosi una valanga di voti e divenendo il padrone di un partito politico sull’orlo di una crisi di nervi.
Eppure, nell’ultima settimana, l’inarrestabile ascesa del tycoon ha subito la prima durissima battuta d’arresto. Chi l’ha fermato? Non certo l’anemico partito repubblicano (che aveva quasi del tutto domato) né l’impopolare avversaria democratica Hillary Clinton, ma un nemico ben più pericoloso e potenzialmente letale: Donald J. Trump.
Reagendo in modo irresponsabile all’indomani della terribile strage di Orlando e arrivando al punto di accusare il presidente Obama di appoggiare gli estremisti dell’ISIS, il magnate ha visto crollare il proprio consenso, dimostrando l’incapacità di assumere un atteggiamento presidenziale davanti a una tragedia che ha scosso l’opinione pubblica. Gli ultimi dati sulla popolarità del milionario non lasciano spazio a interpretazioni: secondo quanto reso noto la scorsa settimana da una rilevazione del Washington Post ed ABC News, ben il 70% degli americani ha un’opinione negativa di Trump, che è tornato a inseguire la Clinton nei sondaggi nazionali, dopo averla inaspettatamente sorpassata (seppur di poco) alla fine di maggio.
La grave situazione in cui si è cacciato il candidato repubblicano ha scatenato il panico all’interno dello schieramento politico conservatore. Braccati da stuoli di giornalisti, gli esponenti più in vista del partito repubblicano si sono trovati in evidente imbarazzo, e molti hanno preferito evitare commenti sulle ultime sparate del proprio presunto nominato. Lo sconcerto del GOP è emerso in modo chiaro dalle parole del capogruppo alla Camera Paul Ryan, il quale, in una intervista rilasciata domenica a “Meet the Press” è arrivato a suggerire ai delegati che voteranno alla convention di luglio di esprimersi “seguendo la loro coscienza”. “Non è il mio compito quello di dire ai delegati cosa fare” ha affermato lo speaker, mettendo in luce i timori dei suoi colleghi di fronte alle intemperanze di Trump. Arrampicandosi sugli specchi, Ryan ha tentato di giustificare la propria ambigua posizione con la necessità di tenere unito il partito e di riconquistare al contempo la Casa Bianca a novembre. Ma sa bene che un personaggio come The Donald rischia di vanificare entrambi gli obiettivi trascinando tutti nel baratro.
Pur criticando l’atteggiamento del Grand Old Party nei suoi confronti, lunedì il magnate ha tentato di correre ai ripari licenziando in tronco il proprio campaign manager Corey Lewandowski. Un atto simbolico, quest’ultimo, con il quale Trump ha voluto rassicurare la dirigenza del GOP segnalando una svolta nella strategia della sua campagna elettorale. Personaggio controverso, noto per aver costruito il consenso del tycoon lasciandolo libero di esprimersi in libertà, Lewandowski incarnava infatti il “Trump delle primarie”, in netto contrasto con la linea del potente Paul Manafort, altro membro dello staff, il quale ha più volte tentato di dare alla campagna elettorale un impronta più “istituzionale”. Dopo la vittoria a New York, il contrasto tra questi due personaggi si è manifestato più volte, ma nessuno era riuscito ad avere la meglio sull’altro in modo definitivo. A prevalere è stato invece il carattere permaloso e irascibile di Trump, insofferente ai consigli di quanti lo circondano e capace di mandare in vacca qualsiasi strategia ragionata sull’onda della sua proverbiale imprevedibilità.
Se il licenziamento di Lewandowski è, sul piano comunicativo, l’ennesimo (e tardivo) tentativo di “cambiare tono” da parte del magnate, sul fronte organizzativo, al momento la sua campagna elettorale è in netto svantaggio rispetto a quella di Hillary Clinton. Mentre Donald fa i conti con il proprio autolesionismo, la ex First lady ha raccolto infatti 41 milioni di dollari in più del suo rivale, lanciandosi alla conquista degli undici swing states, cioè degli stati tradizionalmente in bilico durante le presidenziali, supportata da una squadra di 700 persone a fronte degli appena 70 impiegati assunti nello staff di Trump. La tattica di Hillary sembra sortire i primi effetti positivi. Gli ultimi sondaggi certificano un recupero in Ohio e Pennsylvania (dove ha agganciato Trump ed è in ora in sostanziale pareggio), mentre in Florida è riuscita a ottenere un margine consistente di otto punti percentuali.
Si tratta, in ogni caso, di un quadro estremamente mutevole, che comincerà a stabilizzarsi solo dopo l’esito delle due convention di partito. E dati i precedenti, lo stravagante newyorkese le proverà tutte pur di risalire la china.
Dal canto suo, Hillary non può che rallegrarsi del fatto che queste elezioni si stiano trasformando in un referendum su Trump, visto che la popolarità non è mai stata il suo forte e il 55% degli americani esprime su di lei un giudizio negativo. In un discorso tenuto martedì in Ohio, la Clinton ha messo in guardia sulle conseguenze economiche di un’eventuale presidenza del tycoon, che a suo dire sarebbero disastrose, causando una nuova recessione e un panico generalizzato sui mercati internazionali. Giocare in attacco agitando lo “spauracchio Trump” e provando così ad attirare i voti di un elettorato che non la ama sembra essere una delle linee più efficaci della strategia della Clinton. A parere di chi scrive potrebbe rivelarsi una delle chiavi del successo da qui a novembre, anche se bisognerà attendere la risposta del milionario, che ha già annunciato di voler contrattaccare proprio sui temi dell’economia.

In questo frangente è invece difficile stabilire con certezza la direzione politica che Hillary deciderà di percorrere all’interno del suo partito. Forze diverse la spingono infatti verso strade opposte, e la ex First lady non ha ancora deciso se buttarsi a sinistra cercando di accontentare la base più “estrema” dei democratici, o puntare al centro verso gli elettori moderati (anche repubblicani) disgustati da Trump.
Ad attirarla a sinistra è ovviamente Bernie Sanders, il quale, svanito il sogno di ottenere nelle urne la nomination, preme per una vera svolta progressista a Philadelphia. Parlando ai propri sostenitori giovedì scorso, Bernie non ha ancora concesso il suo endoserment a Hillary, e pur ribadendo la necessità di allontanare lo spettro di Trump dalla Casa Bianca, vuole concretizzare le battaglie del movimento da lui rappresentato approvando “la piattaforma politica più progressista della storia del partito democratico”.
Sul versante opposto, l’establishment economico ha mandato nei giorni scorsi un messaggio forte e chiaro alla Clinton, intimandole di virare al centro e “suggerendole” di dare dei segnali decifrabili quando si tratterà di nominare il proprio running mate.
In una serie di pareri anonimi raccolti dal quotidiano Politico, i sostenitori di Hillary a Wall Street minacciano addirittura di sospendere i propri sostanziosi contributi elettorali nel caso la ex First lady arrivi a selezionare come aspirante vicepresidente la senatrice del Massachusetts Elisabeth Warren.
Troppo progressista per i gusti dei “fat cats” a stelle e strisce, e soprattutto poco incline a politiche fiscali a loro favorevoli. Meglio optare per un running mate più docile, magari un politico d’esperienza come il capogruppo al Senato Harry Reid o il senatore Tim Kaine, che nelle ultime due elezioni presidenziali ha sempre ambito alla carica di VP. Nelle loro “pubbliche confessioni”, i lobbisti intervistati si spingono ancora più in là, arrivando a delineare il programma ideale che la candidata democratica dovrebbe mettere in atto nei primi 100 giorni di governo, fatto di tagli fiscali alla grande finanza (da concordare con i repubblicani) e di un piano di investimenti in opere pubbliche da usare come diversivo per “tranquillizzare” la sinistra.
Quale sarà la risposta della Clinton ai “suggerimenti” dei donors e alle opposte pressioni di Sanders? Fino a quando potrà, Hillary tenterà di non scoprire le sue carte, ed è logico pensare che la scelta del vice ricadrà su figure dal pedigree progressita ma sulle quali Wall Street non ha messo il veto, come l’attuale segretario del lavoro Tom Perez, il senatore dell’Ohio Sherrod Brown o il segretario allo sviluppo urbano Julian Castro, tanto per fare alcuni nomi.
Il segretissimo processo di selezione è ancora all’inizio. E chissà se Hillary tirerà fuori dal cilindro un candidato in grado di spiazzare qualsiasi previsione.