Il fanatismo islamico che ha prodotto le bombe di Bruxelles a pochi mesi dagli attentati di Parigi e a poco più di un anno dall’attacco alla redazione di Charlie Hebdo, ricordano all’Europa che non esistono zone immuni dal male e dalla violenza e che gli ingenti apparati di sicurezza poco possono quando un’intera comunità è nel mirino e tutti i luoghi di riunione sono obiettivi sensibili.
Ma l’Europa non è sola a subire gli attacchi suicidi. In Iraq c’è un attacco quasi settimanale, in Turchia due nelle ultime settimane, l’Egitto, l’Iran, l’Afghanistan, il Bangladesh, l’India, lo Sri Lanka, l’Indonesia, il Kenia, contano vittime a migliaia di ogni razza e religione.
A quanti pensano agli scontri di civiltà solo perché gli attentatori si ammantano di giustificazioni religiose, occorre ricordare che negli ultimi decenni si sono contati migliaia di attacchi suicidi che hanno provocato molte più vittime nelle comunità islamiche o di altre religioni che in quella cristiana. Se gli anni posti sotto osservazione diventano trenta o quaranta o addirittura un secolo, si nota che il metodo oggi chiamato dei kamikaze era in atto prima ancora che la definizione conoscesse la sua tragica fortuna a seguito degli assalti suicidi dei piloti giapponesi durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale.
E se oggi appare appannaggio del mondo islamico e dei suoi gruppi oscurantisti e radicali, ieri era un metodo utilizzato dagli scintoisti giapponesi, dai buddisti, dagli induisti e perfino dai cattolici. La carneficina in atto in Iraq e in Siria con lo scontro tra le due anime sciita e sunnita del mondo islamico ricorda il conflitto lunghissimo, su base etnica e religiosa, che ha coperto di sangue lo Sri Lanka per trenta anni. O lo scontro violento e sanguinario che ha visto i nazionalisti serbi di religione ortodossa attaccare e annientare l’antichissima comunità islamica della Bosnia.
Quando dialogo e cooperazione lasciano la parola alle fazioni violente e integraliste inizia prima lo scontro violento tra le sette, poi gli assalti armati, infine le politiche di sterminio con l’inevitabile corollario degli attacchi suicidi.
L’occidente che da secoli ha fissato nelle sue carte fondamentali il principio dell’eguaglianza, novant’anni fa fu percorso da un furore razzista i cui orrori si sono impressi per sempre nella nostra memoria ma non hanno impedito venti anni fa che si ripetessero a pochi passi da noi nei territori della ex Jugoslavia.
I fautori di contrapposizioni e intolleranza, religiosi o laici, capi politici o predicatori, giornalisti o scrittori, sanno che il terreno su cui cadono i loro semi infetti è fertile e genera piante violente e assassine che si propagano come una gramigna letale distruggendo ogni cosa sul loro cammino. Eppure, sempre sicuri della superiorità delle loro convinzioni su quelle che finiscono per criminalizzare e poi perseguitare, continuano a soffiare sul fuoco del conflitto.
I kamikaze impiegati per portare la distruzione dove i normali attentati non possono arrivare sono un’arma che nel passato è stata spesso utilizzata anche da stati sovrani. E gli uomini e le donne che si lasciano esplodere non sono sempre fanatici che si immolano dietro promessa del paradiso. Come dimostrano numerose testimonianze di attentatori sfuggiti al loro destino spesso che li ritraggono come individui che in questo modo preservano la loro famiglia da una minaccia di annientamento oppure sono istigati alla vendetta per un loro caro ucciso.
Chi invoca la superiorità del Cristianesimo sull’Islam invocando epocali contro-esodi che preservino la pace in Europa, usa gli stessi toni e i medesimi argomenti dei fanatici buddisti o induisti o islamici, tutti convinti di praticare la giusta dottrina, tutti certi che il mondo sarebbe migliore se le diversità venissero cancellate, tutti immemori dei genocidi che questo punto di vista ha provocato, tutti incapaci di distinguere quali rovine provoca o forse attratti da questo mortifero sentimento che vede nella guerra una salvifica igiene del mondo, purché non riguardi sè stessi, la propria casa, i propri cari.