Se n’è andato Messi dal Barcellona che lo aveva cresciuto. Se n’è andato, molto più in fretta della Pulce, anche il giovane Donnarumma dal Milan. Due lacrimucce nella conferenza stampa di addio e via, senza voltarsi indietro. Neppure la curiosità di sapere che volto ha lo spasimante tradito. E’ solo l’inizio di una nuova era calcistica, molto più fluida della precedente, per usare un termine che piace ai giovani.
Ragazzi, ammesso che foste sul punto di farlo, non affezionatevi ai vostri campioni, come, a volte, abbiamo fatto noi vecchi boomer. A Milano sono cresciuti in compagnia di Rivera e Mazzola; a Cagliari trovi ancora oggi Gigi Riva a mangiare nella stessa trattoria che gli cucinava l’orata quando, nel 1970, trasformò la Sardegna nella prima isola dei famosi. A Bologna il monumento era Bulgarelli, sempre pronto a un tressette in osteria, a patto che il suo compagno di carte avesse l’accento bolognese. A Firenze c’era l’eterno De Sisti, così come Napoli è stata per anni e anni il regno di Juliano.
Con il passare degli anni, degli ‘svincoli’ contrattuali e delle crisi finanziarie dei club, tutto è cambiato. Talmente tanto che oggi l’eccezione è la certezza. L’unico ad aver garantito fedeltà assoluta alla sua sterminata platea di spettatori è stato Francesco Totti, che rimase in una Roma da metà classifica anche quando era il Real Madrid e fargli una corte serrata. Su questo lo hanno intervistato pochi giorni fa: <Sono stato l’ultimo dei fedeli alla maglia>, ha detto.

Ha ragione. Il campionato è appena iniziato e già ribolle il pentolone degli addii a fine stagione. Se ne andrà il portiere Handanovic dall’Inter, dove stava da dieci stagioni, e lascerà vacante la fascia di capitano. Il suo vice è Brozovic, anche lui sul piede di partenza. Sulla sponda della Milano rossonera il capitano è Romagnoli: il suo addio, annunciato per la scorsa estate, è solo rimandato.
Il centravanti del Torino (e della Nazionale) è Belotti. Anche la sua era con la maglia granata, che più di ogni altra stabilisce un legame tra chi la indossa e la storia del club, è prossima alla chiusura.
E questo è niente rispetto alla voragine che lascerà in molti cuori napoletani la partenza di Insigne, che al San Paolo ha giocato e segnato più di chiunque altro. Speravano in tanti che fosse subito pronto per essere servito il nuovo Maradona, stavolta ‘fato in casa’. Lo scugnizzo non è bravo quanto lo era Diego, ma il suo pubblico ha aspettato volentieri che crescesse, che riuscisse a scrollarsi di dosso il paragone troppo scomodo e che diventasse se stesso. Per questo lo hanno sostenuto e apprezzato, fino a farne l’indiscusso capitano di un club che oggi è a punteggio pieno in testa alla classifica. Situazioni e valori, verrebbe da pensare, che ti legano per la vita a un club e alla sua gente. Mica vero. Insigne se ne andrà, perché il Napoli non lo tratta come Neymar al Psg o come Ronaldo. Il fatto che a impedirglielo non sia la cattiva volontà, ma evidenti limiti economici che attanagliano il calcio di mezzo mondo, poco importa: l’importante per tutti i calciatori con la valigia è che a loro venga riconosciuto lo status di campionissimi. E quello, pare, si misura con il metro dei milioni e non c’è altro strumento (il senso di appartenenza, l’affetto della gente, ad esempio) che lo possa sostituire.
Non è affatto un caso che Mourinho, dopo aver visto il suo pupillo Luca Pellegrini rinnovare il contratto con la Roma, abbia festeggiato l’atto di fedeltà come un matrimonio. Durerà altri cinque anni, non in eterno, ma è stato comunque quello del giocatore un gesto che tiene conto della riconoscenza.
Un monumento allo sport come Dino Zoff parla del passato con nostalgia: “Era anche una questione di valori. Ai miei tempi essere il capitano ti faceva sentire particolarmente legato alla tua squadra”.
Già, i valori: parola scolorita nel dizionario del pallone. Da atleti che hanno simboleggiato la loro città più e meglio di tante autorità ad attori di uno spettacolo itinerante. Da una squadra all’altra come da un film all’altro: è la vita dei divi, basta che il regista sia bravo a valorizzarli. Forse è giusto, naturale che sia così. Però nessuno si compera per cento euro la maglia di un attore e nessuno si abbona a una casa produttrice di film.
Questa trama non ha ancora un finale ‘scritto’ e non è detto che la cosa migliore da fare sia aspettare la fine. Se qualcuno si alza ed esce prima, bisogna capirlo.