“E Valentino Rossi? E’ arrivato undicesimo e ha dato segnali di vivacità”. Fonte: il servizio che l’ultima Domenica Sportiva ha dedicato alla MotoGp.
Il Dottore ha bisogno di un dottore. La cura, assai più brusca di quella che Franco Battiato cantò per le donne, gliel’ha suggerita il rivale di un tempo, quel Biaggi che fu spodestato proprio dall’allora giovane e dirompente Valentino: “E’ ora di ritirarsi”, ha scolpito Max su una tavola social.
Perfido uomo: detto da lui, che a 41 anni portò a casa l’ultimo trofeo in Superbike, non è un consiglio, ma una provocazione. Valentino, che lo scorso febbraio di anni ne ha compiuti 42, lo ha mandato a quel paese. Poco dopo, però, è stato Flavio Briatore, che di piloti qualcosa sa (fu lui a scoprire Schumacher e a fornirgli la Benetton per il suo primo titolo mondiale), a fare copia-incolla con la ricetta di Biaggi: “Valentino, basta. Dopo i 40 i riflessi calano e non si può correre a 300 all’ora a cinque centimetri da chi ti sta davanti”. E qui il signor Rossi è rimasto nell’anonimato che solo il cognome può garantire all’unico pilota capace di vincere in tutte le ‘Classi’ e che di trofei mondiali ne ha alzati nove. Valentino lo sa: lontano dal pericolo, lontano dal podio, è inevitabile.
Quest’anno come l’anno scorso: il signor Rossi ormai corre come se sui circuiti avessero disegnato una bike lane, una pista ciclabile tutta per lui. E’ una sorta di Pontefice delle due ruote che sulla ‘Valemobile’ saluta i suoi fedeli e diventa icona di se stesso, mentre gli altri lottano per qualcosa.
Dai motori al calcio, per dire di un altro splendido ultra quarantenne che rischia di annacquare la sua splendida storia di campione in un lungo e struggente addio. Gigi Buffon è stato protagonista della splendida partita che la Juve ha giocato contro l’Atalanta per vincere la Coppa Italia. La squadra che mai quest’anno era riuscita s sprigionare tutta la sua forza, ce l’ha fatta nel momento cruciale, trascinata dal suo gran veterano. Buffon ha dato la carica e la Juve ha battuto la splendida Atalanta usando le sue stesse armi, la velocità e una concentrazione feroce. Un successo inaspettato, l’ennesimo trofeo per Buffon, giustamente portato in trionfo dai compagni. Non perché avessero vinto, ma perché quella era la partita del congedo di Buffon dalla Juventus. Il congedo di un grande.
Pensi che adesso Buffon esca trionfalmente di scena e che si goda i suoi allori, la sua fama di vincente fino all’ultimo istante di carriera. Insomma, che lasci nel momento in cui, nonostante l’età, lo rimpiangerebbero tutti, juventini e avversari. Invece che ti combina il Portierone? Si è rimesso sul mercato con la speranza che un club italiano o straniero, di media o di bassa classifica, si voglia mettere in casa questo pezzo di storia. Se c’era un modo per uscire di scena da trionfatore, Buffon lo ha trovato ma rinuncerà a cogliere l’attimo propizio per questa manifesta incapacità che hanno alcuni campioni di mandare i titoli di coda alla loro storia. Al lieto fine che si sono conquistati con bravura e sacrificio, preferiscono la normalizzazione di se stessi, il ritorno alla routine che li mette sullo stesso piano dei comuni mortali: giochi se stai bene, giochi se il tuo compagno infortunato e così via. Buffon cerca una nuova casa, meno impegnativa da mantenere, che gli garantisca una serena vecchiaia. Qualcuno, per favore, gli dica di non farlo, di non cedere alla tentazione, di non ricalcare il finale amaro di Totti che dalla Roma è stato ‘rimosso’ con la forza, come se i suoi dirigenti avessero chiamato il carro attrezzi per spostare l’auto che in moto ci andava una volta sì e una no. I grandi dello sport potrebbero traslocare nell’Olimpo per godersi fama, ricchezza e libertà. Ma hanno paura della convivenza con se stessi privati della loro divisa, della loro settimana-tipo, della loro abitudine alla sfida.
Il problema è di tanti campioni. Anche Zlatan Ibrahimovic è vittima illustre della sindrome da eternità. Il centravanti del Milan, che due anni fa giocava nei Galaxy di Los Angeles, ha ridato slancio e prestigio al Diavolo. Peccato, però, che sul più bello il supereroe svedese abbia subito l’ennesimo infortunio, lasciando al loro destino i compagni che si stanno giocando l’accesso alla Champions: quello che sull’Europa pareva un portone spalancato, ora è un pertugio nel quale infilarsi, forse, all’ultima giornata. E senza Ibra.
E qui scatta puntuale l’obiezione mossa dal garante dell’associazione ‘Atleti Sempreverdi’. Volete l’elenco degli sportivi che brillano nonostante siano entrati negli ‘anta’? Avanti pure: nel calcio c’è il giapponese Kazuyoshi Miura, 53 anni, il più anziano di tutti. Gioca ancora nella massima serie e non ha nulla da invidiare ai ragazzini. Poi Tom Brady, il numero uno del football, che festeggia le sue vittorie al Super Bowl con i bambini in braccio. I più maligni si domandano quando toccherà ai nipoti. Il migliore di tutti i tempi nel golf presto sarà il rinato Tiger Woods, che a 44 anni gioca di nuovo da numero uno al mondo. E non c’è bisogno di citare i big dello sport mondiale per celebrare gli ultra quarantenni: nel Bologna calcio dirige l’orchestra l’argentino Rodrigo Palacio, anni 39, leader massimo della sua squadra, unico in Europa alla sua età a mettere a segno tre gol nella stessa partita, quella contro la Fiorentina. Se l’allenatore lo relega in panchina per due gare, Rodrigo diventa triste come un bambino senza la favola prima di dormire. Alla stessa età di Palacio, il pugile messicano Manny Pacquiao ha messo in palio la sua corona di campione dei pesi Welter e tira ancora molti più pugni di quanti ne incassi.
Gli esperti dicono che la cura dell’alimentazione e la tecnologia abbinata allo sport abbiano allungato la vita degli atleti. Davvero? Allora perché George Foreman, pugile che ha sempre preferito la birra e gli hot dog alla tisana e alle fibre, vinse il suo ultimo mondiale a 45 anni? Perché il pilota di F1 Nino Farina esordì a 45 anni e (era il 1950) vinse anche un Mondiale? E ancora, perché la Navratilova nel tennis è stata regina fino ai 50, perché nei rally Carlos Sainz ha vinto la sua terza ‘Dakar’ a 57 anni, quando il progresso sportivo non aveva ancora compiuto passi da gigante?
Per un motivo semplicissimo, che regola la vita di tutti i giorni: c’è chi può e chi non può. C’è l’atleta che si conserva come quello che si logora. I grandi dello sport non sono un litro di latte con la data di scadenza stampata dietro la maglia. Il Garante dei Sempreverdi conclude la sua filippica sempre con le stesse parole: “Sta a chi come nessun altro conosce il proprio corpo e i propri limiti, capire quando è arrivato il momento di smettere e nessuno dovrebbe permettersi di consigliargli la pensione”.
E qui c’è da discutere. Loro sono i nostri campioni. E il viale del tramonto di un campione dovrebbe essere brevissimo, se non inesistente. Il campione non è una diva o un divo del cinema, che cerca ruoli adatti alla sua età e può vincere l’Oscar a ottant’anni. Il ruolo del campione nello sport professionistico è sempre quello, come il copione: devi vincere, almeno primeggiare e reggere il confronto con i giovani. Se no, fai un campionato a parte e rimedi la figura di chi si ritaglia un posto per i meriti acquisiti. Come quello in tribuna che spetta di diritto ai vecchi draghi. Non c’è sul ring, in pista o sul prato verde un ruolo adatto alla vecchia star.
Nello sport agonistico c’è la vittoria e c’è la sconfitta e vedere i grandi campioni esibirsi in un triste festival delle qualità perdute, rende struggente, quasi insopportabile il lungo addio.
Insistono perché il ritmo della vita da atleta scandisce le loro giornate, stanno dentro i binari su cui sono cresciuti e sono diventati big perché da quella disciplina si sono fatti assorbire. Ma noi soffriamo per loro. Dobbiamo dire ai nostri figli ‘Fidati che quel Valentino Rossi era un grande’, ‘Sapessi che parate faceva Buffon’ oppure ‘Quell’Ibra lì una volta era di acciaio’. I ragazzi ci guardano perplessi, come fossimo i nonni che raccontano storie dei tempi andati. E noi esausti e fedeli siamo pronti, settimana dopo settimana, a rimettere addosso ai nostri vecchi idoli i panni dei vincitori che furono, pur di non stampare nella memoria l’ultimo sconsolante fotogramma consegnato dalla cronaca.
Se avessero la forza e il coraggio di dire basta e godersi il loro posto nella storia, ci eviterebbero manovre impossibili e non dovremmo avvilirci pensando che se il tempo passa per loro, che sono gli dei dello sport, figuriamoci che cosa sta succedendo al corpo di noi comuni mortali. Pensateci, campionesse e campioni: il vostro declino è anche il nostro. Evitate di sbattercelo in faccia tutte le sante domeniche, per favore.
Poi, pensateci: era il 1978 quando Mina, dopo una malattia non gravissima, si ritirò dalle scene. Beh, da allora non hanno più smesso di cercarla e di invitarla a tornare. La signora Anna Maria Mazzini ha 81 anni, la cantante Mina non ha età.