Quando quella mattina il proprietario arrivò in albergo, non volle credere ai suoi occhi. Nella hall, infatti, c’era un ragazzetto di circa tredici anni che indossava la maglietta giallorossa della Roma e stava giocando a pallone, palleggiando contro il muro bianco, tra le poltrone e i divani del salottino. Il receptionist Nicola guardò, imbarazzato, gli occhi strabiliati del suo datore di lavoro ed esclamò:
“E’ un americano”.
“Gioca bene per essere un americano. Ma per quale accidenti di motivo sta giocando dentro al mio albergo?”
“Non sono riuscito a farlo smettere. C’ho provato, lo giuro. Ma quello smette un attimo e poi ricomincia. E’ proprio fissato con il calcio!”
Seduti sul divanetto c’erano un signore e una signora che fissavano il ragazzo con espressione quasi rassegnata.
“Sono i suoi genitori. Vengono da Minneapolis”, confermò Nicola.
Così il proprietario venne a sapere che il ragazzo, oltre che per il calcio, chiamato soccer negli Stati Uniti, era andato in fissa anche per la squadra della Roma e, in particolare, per il suo capitano, Francesco Totti. Lo aveva visto giocare l’anno precedente a Orlando, quando con la sua scuola era andato in visita a Disney World. La Roma infatti, oltre ad avere un presidente italo-americano, tal James Pallotta, ha anche la Disney tra gli sponsor e ogni fine anno è impegnata da contratto a partecipare ad un’esibizione dalle parti di Topolino e Company. Da allora il giovane aveva messo in croce i suoi poveri genitori e li aveva infine costretti a questo viaggio a Roma, non per vedere le magnificenze della città eterna come il Colosseo o la Fontana di Trevi ma bensì per incontrare il suo idolo calcistico.
“E’ stato un miracolo. Nostro figlio si è salvato da una leucemia giovanile. Ma ora vuole incontrare Totti. Come facciamo?”, gli domandò il papà.
“A incontrare Totti? Non lo so”, rispose il proprietario. Poi, però, gli venne in mente che suo cugino faceva il giornalista per il Corriere dello Sport e, probabilmente, qualche entratura nell’ambiente doveva pure averla. Così fissò gli occhi disperati di quei due poveri genitori americani e disse: “Fatemi fare una telefonata”.
Nel pomeriggio il gruppetto formato dal ragazzo, i suoi genitori e il gentilissimo proprietario si trovava davanti ai cancelli del centro sportivo della Roma in località Trigoria, dalle parti della Laurentina.
Il cugino giornalista era già lì ad aspettarli e li fece entrare.
Totti e compagni stavano svolgendo il loro consueto appuntamento pomeridiano. Il giornalista si avvicinò e sussurrò qualcosa nell’orecchio del capitano il quale prese sotto braccio il centrocampista statunitense Michael Bradley e, insieme, i due si avvicinarono al ragazzino, il quale strabuzzò gli occhi per l’entusiasmo. Totti parlava e Bradley faceva da interprete. E alla fine della conversazione Totti disse a bruciapelo. “Ti va di imparare il cucchiaio?”
“Yes, sir”, rispose tutto contento il ragazzo.
“Cucchiaio ? E che roba è?”, domandò il papà che non sapeva niente ma proprio niente di calcio.
“Lei aspetti e guardi bene”, sentenziò il proprietario che sapeva perfettamente di cosa si trattasse.
Così il ragazzetto e Totti si diressero verso una delle due porte, mentre Bradley si sistemava tra i pali, nell’insolito ruolo del portiere.
Totti sistemò il pallone sul dischetto del rigore e spiegò come si doveva calciare la palla per ottenere quello strano e divertente tiro che faceva tanto arrabbiare i portieri. Il ragazzo non ci mise molto per capire e, subito, volle calciare.
Non fu un cucchiaio il suo, fu davvero un super cucchiaio e il povero Bradley, nonostante il tuffo sull’erba, fu beffato all’istante. Totti si complimentò visibilmente con il bravissimo goleador e esclamò: “Ahò, ma che ci sei venuto da Minneapolis pe’ levamme il posto?”.