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L’India brucia i suoi morti per strada, la variante del Covid la mette in ginocchio

Un milione di contagi ogni 3 giorni, gigante asiatico nuovo centro dell'epidemia e il sistema sanitario carente non riesce a gestire l'ondata. Primi casi in Italia

Sonia TurrinibySonia Turrini
L’India brucia i suoi morti per strada, la variante del Covid la mette in ginocchio

In India si bruciano per strada i corpi dei morti di covid (YouTube)

Time: 4 mins read

In India sta accadendo un pandemonio. Il paese è nel mezzo della più devastante ondata di Covid sperimentata finora, con un aumento vertiginoso di casi e decessi nelle ultime settimane. Attualmente, viaggia su una media di un milione di nuovi casi ogni tre giorni e circa 2800 morti quotidiani.

Secondo alcuni esperti, questo andamento sembra essere dovuto ad una variante identificata in India già lo scorso autunno, chiamata B.1.617. La variante ha diverse mutazioni rispetto al Covid originale, circa una dozzina, ma in particolare ne ha due (rispettivamente la mutazione L452R e E585Q) già note agli scienziati, comuni ad altre varianti come la sudafricana, la californiana e la brasiliana, che la rendono potenzialmente più contagiosa e, soprattutto, preoccupantemente resistente ai vaccini.

Occorre precisare un punto: non è chiaro se la variante indiana sia la principale responsabile dell’aumento dei contagi, e gli esperti sono molto divisi a riguardo, soprattutto perchè i dati disponibili sono pochissimi. La variante indiana è considerata dalla WHO una variante “di interesse” ma non preoccupante, perché non vi è sufficiente materiale da analizzare per farsi un’idea scientifica chiara. I test genetici sui tamponi positivi indiani non sono abbastanza diffusi per poter creare modelli statistici accurati della velocità di diffusione della variante. Per capirci, la variante è stata riscontrata in 656 tamponi nel mondo, di cui 298 in totale in India, che sono pochissimi se facciamo il confronto, ad esempio, con gli oltre 380mila campioni di variante inglese studiati finora. Casi di variante indiana sono stati registrati in 21 diversi paesi, e proprio oggi arriva la notizia dei primi casi in Italia, in Veneto.

Mappa dell’India

Da una parte è vero che la popolazione indiana, con la sua densità, è l’incubatore perfetto per varianti: un terreno fertilissimo in cui diffondersi a macchia d’olio, mutare e rinforzarsi. Tuttavia, secondo la professoressa Ravi Gupta, dell’Università di Cambridge, l’ondata di casi potrebbe dipendere da grandi assembramenti e mancanza di misure preventive come mascherine e distanziamento sociale. Il dottor Jeffrey Barrett, del Wellcome Sanger Institute, sottolinea che la variante è in circolazione già dallo scorso anno, e dunque se l’aumento dei casi fosse da imputare a lei sarebbe in discreto ritardo: “se sta causando l’ondata in India ci sono voluti molti mesi per arrivare a questo punto, che suggerirebbe che sia meno trasmissibile della variante inglese”, ha spiegato alla BBC.

Secondo la professoressa Gupta, questa variante è particolarmente capace di reinfettare chi ha avuto il Covid tempo addietro ed ha iniziato ad abbassare la sua risposta immunitaria naturale. Tantissimi indiani avrebbero quindi preso il virus durante la prima ondata, che ha raggiunto il suo picco a settembre 2020, divenendo immuni e abbassando così la curva del contagio negli ultimi mesi. Poi, il loro sistema immunitario ha abbassato le difese, permettendo una reinfezione da parte di questa variante più trasmissibile. Se così fosse, sarebbe una prima dimostrazione del fatto che la vaccinazione contro il Coronavirus dovrebbe essere ripetuta annualmente, come suggerito da molti esperti.

La questione sempre pressante davanti all’insorgere di nuove varianti è la stessa: i vaccini funzioneranno? Sembra che la variante indiana sia capace, come la Sudafricana, di evadere gli anticorpi creati dai vaccini attualmente disponibili un po’ meglio del Covid “originale”. Tuttavia, i vaccini non sono completamente inutili ed inefficaci, ma dovrebbero avere comunque un effetto nel rallentarne la diffusione. In ogni caso, è plausibile che le formulazioni dei farmaci vengano modificate in futuro, per renderle più efficaci.

Gli operatori sanitari con una fiala di vaccino COVID-19 in un ospedale in India.
(UNICEF / Vinay Panjwani)

Sta di fatto che, allo stato attuale, il sistema sanitario indiano è al collasso, a corto di ventilatori, ossigeno e farmaci essenziali. Il governo ha aperto la vaccinazione a tutti gli adulti a partire dall’1 Maggio, nonostante corra il rischio di non avere sufficienti dosi nemmeno per completare l’immunizzazione della popolazione over45, cui la vaccinazione era già aperta. Ad ora sono state somministrate 120 milioni di dosi del vaccino Covishield, versione indiana di AstraZeneca, coprendo meno del 10% della popolazione con una sola e nemmeno l’1% con doppia dose , nonostante l’India sia il primo produttore al mondo di vaccini. Pare addirittura che la campagna vaccinale sia essa stessa un fattore che ha elicitato l’esplosione dei contagi: secondo un articolo di Nature, spesso i vaccinandi si recano in ospedali e cliniche in cui condividono la sala d’attesa con i malati, infettandosi prima ancora di poter essere inoculati col vaccino.

Sotto forte pressione, l’amministrazione Biden ha stabilito domenica di procedere con l’export verso l’India di farmaci, tamponi, ventilatori, equipaggiamento di protezione personale per i sanitari e, soprattutto, vaccini. La decisione è stata presa dopo che Jake Sullivan, consigliere di sicurezza di Biden, ha avuto una conversazione telefonica con un suo omologo indiano.

“Proprio come l’India ha inviato assistenza agli USA quando i nostri ospedali erano sotto pressione all’inizio della pandemia, gli USA sono determinati ad aiutare l’India in questo momento di bisogno” ha commentato Emily Horne, portavoce del National Security Council.

 

 

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Sonia Turrini

Sonia Turrini

Sono laureata in psicologia, attualmente impegnata in un PhD in Neuroscienze a Bologna. Sono cresciuta con la cultura americana nell’aria, l’Herald Tribune in salotto, i libri dei grandi presidenti sulle mensole di casa, e Bruce Springsteen nelle orecchie. Non ho memoria di quando ancora non conoscevo Streets of Philadelphia, perché ero troppo piccola per ricordare. E pensavo parlasse di formaggio. Ho visitato gli Stati Uniti la prima volta, ancora ragazzina, nell’estate 2008, e ho passeggiato con la mia spilletta Yes We Can appuntata sullo zaino. Seguo con passione la politica americana da anni, e oggi ne scrivo sperando di portarci il valore aggiunto della mia formazione scientifica: le opinioni sono sempre ben accette, ma solo sulla base di fatti oggettivi, dimostrati e condivisi.

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