L’appuntamento è in un minuscolo caffè di Park Slope, a Brooklyn. Un posto che sembra essere uscito da un’altra epoca, con le piastrelle bianche e nere e un divanetto rosso fuoco. Dalla vetrata, mentre una nevicata improvvisa imbianca leggermente la strada, con passo veloce e occhi sorridenti, entra nel locale Jessica Morris. “Scusa il ritardo!”, ci dice. “Ero alla Columbia University oggi: è stata una lunga, lunga giornata”.

Jessica è un’elegante donna londinese di 54 anni. Parla un inglese british, uno di quelli che fanno invidia a molti americani. Il 23 gennaio 2016 ha scoperto di essere affetta da una rarissima forma di cancro al cervello: il glioblastoma, noto anche come GBM o glioblastoma multiplo. Negli Stati Uniti, in 18mila ogni anno scoprono di avere questa forma di tumore, per cui ancora non è stata trovata una cura. E di recente, negli USA, se ne è iniziato a parlare di più perché ha colpito anche il senatore John McCain, a cui proprio Jessica Morris si è rivolta in un Op-Ed article pubblicato sul New York Times. La speranza di vita dopo la diagnosi è in media di 14 mesi, ma solo se ci si sottopone a chemioterapia e radioterapia. Mentre solo una persona su 20 sopravvive oltre. Jessica Morris è una di queste. E nel marzo del 2018, in collaborazione con una decina di persone tra pazienti, dottori e ricercatori, ha lanciato la start-up OurBrainBank, di cui è fondatrice.

Si tratta di un’applicazione per smartphone, che traccia i sintomi della malattia del paziente affetto da glioblastoma quotidianamente. Attraverso semplici domande sul suo stato di salute giornaliero: “Come stai oggi, in una scala da 1 a 5?”, “Hai fatto esercizio fisico oggi?’”, “Quante ore hai dormito ieri notte?”, “Quanto ti senti affaticato da 1 a 5?”. O attraverso esercizi mentali, come lo “Speed Test”, lo “Stability Test” e il “Match Test”. I dati emersi dalle risposte del paziente sono archiviati in un profilo personale, per essere da lei o da lui direttamente consultabili. Ma vengono anche raccolti, in modo anonimo e protetti dall’identità di chi li ha prodotti, in un data-base open source sicuro, a cui possono avere accesso poli accademici, ricercatori e professori universitari. L’obiettivo dell’app è duplice: fare luce su una forma di tumore di cui si sa ancora troppo poco, e facilitare la ricerca per giungere più in fretta e in modo meno costoso a una cura che oggi non esiste.
“Ho scoperto di avere il cancro durante un’escursione ad Upstate New York, un giorno” spiega Jessica mentre ci sediamo a un tavolino, con vista su Berkeley Pl. “Mi sentii male. Ma non riuscivo a parlare, a comunicarlo alle persone con cui mi trovavo. Poi il buio: svenni, di colpo. Mi diagnosticarono il glioblastoma e mi operarono due giorni dopo, e lo shock durò ben di più”. Nata e cresciuta a Londra, laureata in Storia a Cambridge e con una carriera avviata come Strategic Communications Consultant a New York, dove vive dal 2006, Jessica è sposata e ha tre figli di 20, 18 e 15 anni. Vive a Park Slope, a due passi dal Cafe Regular du Nord in cui ci incontriamo: “I giorni successivi all’operazione, durante la chemioterapia e la radioterapia, furono terribili. Ricordo che a volte mi svegliavo di notte nella mia camera da letto e pensavo: ‘La morte sta per arrivare, Jessica. Chi lo avrebbe mai detto che un giorno avresti potuto pensarci con questa certezza? Dannazione!’. Fu drammatico”. Ma grazie una “famiglia forte” e a “un quartiere fatto di amici straordinari che mi hanno calorosamente sostenuto”, Jessica ritrova le motivazioni. E in fretta.

“Ho deciso di trattare il mio tumore così aggressivo, con la sua stessa aggressività: ho capito che non avevo e non ho letteralmente nulla da perdere”. Jessica inizia quindi a “usare il cervello per combattere il mio cancro al cervello”. E con il suo dottore Fabio Iwamoto, Deputy Head of Neuro-Oncology alla Columbia University, getta le basi per il progetto OurBrainBank. “Tutto ebbe inizio quando gli chiesi per quale motivo non ci fosse ancora una cura per questo cancro. Mi disse che i problemi sono in genere legati alla rarità della forma tumorale, che rende più difficile la raccolta fondi per la ricerca”. Chi finanzia questi progetti, infatti, è scoraggiato in partenza perché il decorso della malattia è ancora troppo breve. E solo il 5% delle applicazioni per la raccolta-fondi per il glioblastoma ha successo: “Ho pensato che dietro a quei 18mila casi di GBM all’anno non ci fossero solo pazienti, ma persone”.
E che attraverso la tecnologia fosse possibile supportare i pochi dati raccolti dalle costose cure di oggi, con un metodo più semplice: tracciando la quotidianità delle persone, tramite un dispositivo tecnologico su smartphone: “Mi sono detta: cosa succederebbe se potessimo catturare i dati delle esperienze di vita dei pazienti ogni giorno, gratuitamente, mettendoli a sistema con il monitoraggio oggettivo delle risonanze magnetiche che già facciamo e delle cure già esistenti?”. Così è nata l’idea OurBrainBank. “L’’impianto dell’applicazione esisteva già ed è stata realizzata da una società IT con sede a Londra, uMotif, ma non era ancora stata incanalata nel progetto di startup innovativa che abbiamo realizzato in seguito, coordinandoci proprio con uMotif”. Grazie al lavoro di Jessica, in collaborazione con il dottor Fabio Iwamoto, Adam Hayden (paziente anche lui affetto da GBM, dal giugno 2016), Bruce Hellman (Chief Executive uMotif) e Asaf Danziger (Chief Executive Officer di Novocure, compagnia-pioniera nella lotta contro i tumori di tipo TTF), il 13 marzo 2018 è stata lanciata la nuova applicazione, disponibile gratuitamente per dispositivi Apple e Google Android. Per ora, è scaricabile solo negli Stati Uniti. Ma negli obiettivi dei fondatori, l’app sarà disponibile presto in tutto il mondo. E secondo le loro previsioni, oltre mille persone inizieranno a usarla durante il primo anno di lancio: “Abbiamo pubblicato un’indagine sulla nostra pagina Facebook, relativa al lancio dell’applicazione, e dopo 48 ore abbiamo ricevuto 115 risposte. È stato un inizio incoraggiante”, ha detto Jessica.


Ora la sfida per OurBrainBank, i cui dati raccolti saranno disponibili a tutti i centri di ricerca GBM del mondo, dopo un processo di approvazione dell’OurBrainBank Data Committee, è quella di trovare nuovi investitori per ampliare l’applicazione. E di convincere i centri, per implementare i finanziamenti sulla ricerca sul glioblastoma: “ll problema dei fondi è una discriminante assoluta – dice a La Voce di New York il dottor Fabio Iwamoto, co-fondatore della startup. Il budget deve essere implementato, anche attraverso un aumento deciso dei fondi federali”. Per Iwamoto, “la chiave è tutta nella ricerca, per troppo tempo ci sono mancati gli insight critici e soggettivi diretti dei pazienti”. E OurBrainBank ha “la capacità di intercettare proprio questa criticità, questa lacuna. È un progetto che ha il potenziale per avere un impatto reale sulla nostra capacità di aumentare la speranza di vita dei pazienti”.
Mentre fuori dal grazioso caffè di Park Slope smette di nevicare, chiediamo a Jessica cosa significhi curarsi dal cancro in un Paese come gli Stati Uniti, che considera la sanità un servizio e non un diritto. “È critico, davvero. Io sono molto fortunata, perché la mia assicurazione sanitaria copre la maggior parte delle mie cure e sto ricevendo il trattamento migliore al mondo” riflette Jessica, mentre sorseggia un altro po’ del suo cappuccino. “Ma penso – continua – a quanti vivono isolati, magari, in una cittadina del Midwest lontana da tutti e da tutto: lo sai che l’85% delle persone a cui viene diagnosticato questo cancro non vede nemmeno uno specialista perché non sa che ci siano? E se non vedi uno specialista, sei finito in partenza”.
Tra le finalità di OurBrainBank, c’è non a caso quella di rinsaldare la comunità di persone affette da questo cancro. Donne e uomini lontani fisicamente, ma da mettere in contatto online per confrontarsi sui sintomi e le cure: “Uno degli strumenti che si trova all’interno dell’app è un forum aperto a tutti gli iscritti, in cui ci si può scrivere, e dove si può rimanere in contatto”, spiega Jessica. “Per chi si ammala di tumore, il senso di comunità, la sensazione di appartenere a un gruppo di persone che, vicine o lontane, sono in contatto con te e ti capiscono, è fondamentale”. E far capire ai dottori che proprio un’applicazione o una pagina social su Facebook possa essere d’aiuto, è un’altra sfida tutta da conquistare: “Quando all’inizio parlai di questo progetto, molti medici furono scettici e mi dissero: ‘Le persone non vogliono parlare delle loro malattie, un’app del genere non verrebbe mai utilizzata perché i pazienti non vogliono condividere’. Rimasi perplessa, perché non è così”.
E a confermarlo è anche Adam Hayden, tra i co-fondatori dell’app, anche lui malato di GBM: “OurBrainBank eleva la singola persona che vive con il tumore a punto-cardine di un processo che potrà migliorare la ricerca sulla malattia di cui è affetto” dice a La Voce di New York. Chi usa l’applicazione, infatti, aiuta sé stesso, attraverso gli esercizi e le diagnosi quotidiane sul proprio stato di salute. Ma non solo: “Le persone affette da GBM sono eterogenee, così come lo è la malattia. Stimolando i dati dei pazienti, si stimolano la consulenza medica e ricerca oncologica, attraverso un contributo unico e innovativo, che non potrebbe avere mai luogo in laboratorio senza il coinvolgimento diretto dei pazienti. OurBrainBank è più di un’app, è un mezzo che apre nuovi scenari nell’approccio alla ricerca”.

Una ricerca che, nonostante tutte le difficoltà e i pochi fondi, continua ad andare avanti. In uno studio pubblicato sulla rivista Cancer Cell nel settembre 2017, un gruppo di ricercatori del Massachussets Institute of Technology (MIT) di Boston ha reso noto di aver scoperto il meccanismo che porta una specifica proteina, chiamata PRMT5, a far crescere il glioblastoma. I ricercatori di MIT, guidati dal dottor Christian Braun, sono stati in grado di arrestare la crescita del tumore nei topi, bloccando il meccanismo connesso alla proteina PRMT5, attraverso l’uso di una serie di farmaci già oggi esistenti sul mercato. Un passo in avanti incoraggiante, ma ancora insufficiente: “La mission della nostra applicazione è quella di creare i presupposti per migliorare il trattamento di questo cancro e per motivare i centri a implementare i loro finanziamenti alla ricerca, sempre di più” ci dice Jessica Morris. “Dodici anni fa si sopravviveva al glioblastoma per appena una manciata di mesi, oggi c’è speranza fino ai 5 anni. Sogno un mondo in cui tra dodici anni, nel 2030, chi scoprirà di avere un glioblastoma sarà consapevole di essere colpito da un cancro curabile, non terminale”.
E a chi lo scopre oggi, invece, Jessica cosa dice? “Lo so, sto per dire un clichè classico sul senso della vita che avrete letto e sentito tante volte. Ma fatelo davvero: vivete il momento, vivete ciò che avete e concentratevi su quelle che sono le vostre sfide di oggi. E se scoprite un cancro come il glioblastoma, condividete i vostri sintomi. Da qualche parte nel Paese e nel mondo, c’è chi sta affrontando la vostra stessa sfida: cerchiamoci, aiutiamoci”.