È un’opera che resta nei secoli, segna un prima e un dopo: 252 anni fa un nobile milanese, Cesare Beccaria, dà alle stampe, come anonimo, un libretto esile nel formato, ma destinato, a segnare: Dei delitti e delle pene; è un testo fondamentale contro la tortura e la pena di morte. Il libro ha un enorme successo, in Italia, in Europa, in America: Jefferson, Franklin, altri padri costituenti, lo leggono in “originale”. Salvo poi, nella pratica fare spesso l’opposto; ma l’allora granduca di Toscana Leopoldo II si convince, ed è il primo stato al mondo che abolisce la pena di morte.
Il libro viene messo all’indice. Si capisce: opera una distinzione tra reato e peccato; detta il principio per cui pene e delitti devono basarsi esclusivamente su un codice di leggi; viene messo al bando l’arbitrio, o l’influenza del giudice: “Qual può essere il diritto che si attribuiscono gli uomini di trucidare i loro simili?”.
Beccaria, e non solo lui. Nel corso degli anni, dei secoli, uomini di grande cultura si battono con tutte le loro forze contro la pena di morte e la tortura. La loro accorata denuncia spesso si trasforma in veri e propri classici della letteratura. Ne possiamo citare solo alcuni. Il cupo Fjodor Dostojevski, per esempio, con il suo L’Idiota: “Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso”; non è da meno il fluviale Lew Tolstoi, le sue Confessioni sono meglio di un qualsiasi trattato giuridico: “Non c’è alcuna teoria della razionalità dell’esistente che possa giustificare un simile atto”.
In Francia c’è il maestoso radicale Victor Hugo con la sua atroce Lettera di un condannato a morte: “È arrivato una specie di giudice […] gli ho chiesto la grazia […] mi ha risposto, con un sorriso fatale, se era tutto là quello che avevo da dirgli…”
In Italia c’è Alessandro Manzoni, la sua straordinaria Storia della colonna infame: “Il senato comandò che martoriati prima con rovente tanaglia e alla ruota intrecciati dopo sei ore scannati poscia abbruciati e perché d’uomini così scellerati nulla resti…”.
Lapidario, trecento anni prima, Michel de Montaigne: i suoi Essais sono un inno al rispetto reciproco, senza distinzione: “È un mettere le proprie congetture a ben altro prezzo, volere, per esse, far arrostire vivo un uomo”.
Più vicini a noi, Alberto Savinio, poliforme artista maestro di paradossi e freddure, in Morte dell’Europa: “Un fatto grandissimo è avvenuto, ma quasi in silenzio e avvertito da pochi. L’Italia ha abolito la pena di morte”.
E si può chiudere con Leonardo Sciascia, che non ha paura di sfidare il comune sentire, quando è convinto della giustezza di una causa: “C’è sempre nel mondo tanta gente favorevole alla pena di morte. Questo non incrina per un momento la mia certezza che è un delitto”.
Opere che si leggono sempre con grande commozione: nelle loro pagine lo sgomento, lo spavento, l’indignazione che dovremmo avere tutti, quando si sente invocare la pena di morte, in un paese che tra i suoi titoli di civiltà e gloria ha quello di aver dato i natali a Beccaria e di aver abolito nel 1889 e nel 1944 la pena di morte.
Infine, forse, ci voleva un papa venuto da “quasi la fine del mondo”, ma con nelle vene sangue italiano, un figlio di emigranti, che per la prima volta varca la soglia del Congresso americano per invocare clemenza e sostenere la moratoria della pena di morte: negli Stati Uniti e ovunque. Un papa dal volto bonario e dai modi da caterpillar. Hanno fatto discutere le affermazioni di papa Francesco dirette a Donald Trump. Ma agli americani Francesco dice altro, e di ben più incisivo: “Basta con la vendita di armi. Aiutate i profughi e le loro famiglie…”.
Basta con le armi nella terra di John Wayne? Poi, altri gesti “simbolo”: l’omaggio a Lincoln: la libertà; a Martin Luther King: libertà e non esclusione; a Dorothy Day: giustizia sociale e diritti delle persone; a Thomas Merton: dialogo e apertura… Anche allora esorta ad abolire la pena di morte: “Ogni persona umana è dotata di una inalienabile dignità, e la società può solo beneficiare dalla riabilitazione di coloro che sono condannati per crimini”.
Dopo averlo ascoltato, il presidente Obama scuote la testa: continua a essere favorevole alla pena di morte. Anche per Hillary Clinton è “una punizione adeguata per un certo numero di crimini molto limitato e particolarmente efferati”; i candidati repubblicani, figuriamoci neppure parlarne. Solo Bernie Sanders ha il coraggio di dire che “lo Stato non dovrebbe essere parte di un omicidio”.