Chissà se pensava di aver scritto un’opera destinata a restare nei secoli, un vero e proprio spartiacque: duecentocinquanta anni fa, un nobile milanese, Cesare Bonesana Beccaria, marchese di Gualdrasco e Villareggio, dava alle stampe, firmandolo come “Anonimo”, un libretto esile in quanto formato, ma destinato, appunto a “segnare”: quel “Dei delitti e delle pene” testo fondamentale contro la tortura e la pena di morte. Fin da subito ha un’enorme fortuna: Thomas Jefferson e i “padri” fondatori degli Stati Uniti d’America, lo leggono direttamente in italiano, e da quel “libretto” prendono spunto e ispirazione per le nuove leggi per la giovane nazione americana; in Francia incontra l’apprezzamento entusiastico dei filosofi dell'”Encyclopédie”; Voltaire ne è entusiasta e con Beccaria intraprende una fitta e interessante corrispondenza; e il “club” che raccoglie i philosophes più prestigiosi lo studia e postilla, alla fine ne compare una traduzione in francese curata dall’abate filosofo André Morellet, impreziosita dalle note di Denis Diderot. Il granduca di Toscana Leopoldo II in omaggio alle tesi di Beccaria, nel 1786 abolisce la pena di morte. In compenso, nel 1766 il libro viene messo all’“Indice”; se ne può ben capire il motivo: il libro ha l’ardire e la sfrontatezza di operare una distinzione tra reato e peccato.

Cesare Beccaria (Milano, 15 marzo 1738 – Milano, 28 novembre 1794)
“Dei delitti e delle pene” capovolge radicalmente la legislazione giudiziaria dei suoi tempi; si può ben dire sia un testo rivoluzionario; detta infatti il principio per cui la determinazione di pene e delitti deve basarsi esclusivamente in base a un codice ben fatto e definito di leggi; dunque al bando l’arbitrio o l’influenza del giudice, fino ad allora dominanti e prevalenti, e questo per la “semplice” ragione che essendo un uomo anche il giudice, può lasciarsi trascinare o influenzare dai propri istinti o interessi.
I 250 anni sono stati senz’altro ottimamente ricordati con adeguate celebrazioni, e con solenni appuntamenti; se ne saranno ricavati senz’altro volumi con gli atti di dotte relazioni per convegni di prestigio. Ma, come documentano Amnesty International e “Nessuno tocchi Caino”, la pena di morte è in vigore ancora in 58 paesi su 191; e tra il 2009 e il 2014 la pratica della tortura è stata accertata in ben 141 paesi. Per quello che riguarda l’Italia basterebbe un gesto, del Parlamento, del Governo: introdurre, finalmente, anche nei nostri codici il reato di tortura, che non è ancora contemplato nonostante il nostro paese abbia sottoscritto e firmato da anni le relative convenzioni internazionali. Finalmente, comincerebbero a trovare pace gli Stefano Cucchi e di Aldo Bianzino, i Federico Aldrovandi e i Giuseppe Uva, i Michele Ferrulli e i Francesco Mastrogiovanni, le vittime della “macelleria messicana” che si consumò in occasione del vertice del G8 a Genova, e le decine di persone che sono entrate vive in una istituzione dello Stato (carcere, stazione dei carabinieri, questura, ecc.), e ne sono uscite morte; e anche le loro famiglie ne ricaverebbero un po’ di consolazione, perché le vittime dei “delitti” e delle “pene” potrebbero finalmente ottenere giustizia.
Non è difficile, compiere quel gesto: basta recuperare i testi di legge presentati dai radicali e PD e altri nella passata legislatura; in questa; in poco tempo, se ci fosse la volontà politica, quei testi si potrebbero approvare. Ma qui la domanda: perché chi può non vuole e non fa?
In fin dei conti è questa la domanda da porre e da porci, se vogliamo davvero celebrare al meglio i 250 anni dei “Delitti e delle pene”.