L’intelligenza artificiale (di seguito AI) sta entrando man mano nelle case di tutto il mondo fra pareri discordi, ora entusiastici e ora catastrofici di padri, madri, figlie e figli di questo prossimo futuro sempre più digital.
La AI entrerà sempre più spesso anche nei salotti delle grandi imprese e delle amministrazioni pubbliche, sarà il nuovo oracolo da interrogare per partiti di destra e di sinistra di tutta la terra e detterà nuovi scenari, molto più aridi di braccia e molto più ricchi di robot. Come ogni apocalisse, fa paura, ma al tempo stesso affascina l’uomo che vive il presente sognando il futuro.
La domanda è d’obbligo: con quale visione?
Il New York Times ha scritto nei giorni scorsi (vedi articolo) della AI in riferimento ai nuovi progressi di Google e della sua divisione DeepMind. In sostanza Google continua la sua ricerca e rincorsa verso OpenAI e Microsoft puntando a trasformare l’intelligenza generativa anche in una sorta di consulenza: insomma potremo presto avere il personal coach virtuale con consigli utili per la nostra vita e le nostre scelte.
Anche qui la domanda è d’obbligo: con quale empatia?
La storia ci ha insegnato che tutto convive e si trasforma, come la radio che canta ancora con noi sotto la doccia, ma diventa spotify o podcast con le cuffiette in metropolitana. Certamente la AI apre una nuova epoca dal punto di vista economico, sociale e politico in generale. E la questione è talmente rivoluzionaria che dovrà passare attraverso leggi, accordi, compromessi e grandi battaglie fra poteri multinazionali istituzionali e privati. Staremo a vedere, non possiamo controllare ciò che non dipende da noi, e questa è la premessa fondamentale del coaching, ciò che lo rende un metodo serio, perché si concentra solo ed esclusivamente su ciò che invece dipende da noi.
Così il tema si fa interessante perché è ancora possibile, a mio parere, credere in una società che in qualche modo adotta e governa la tecnologia invece di subirla. Ci vorrà tempo, ma homo digital è pur sempre discendente da home sapiens e fra bassi e alti, vittorie e sconfitte, homo sapiens continua da millenni a combattere la sua vita fra bene e male ed usa a tale scopo ogni arma e invenzione possibile. La società dei poteri cambia nel tempo e cerca di rimuovere i confini e portare dove vuole il concetto di bene. Ancora una volta dunque non è il cosa che fa la differenza, ma il come. Come useremo la AI, verso il bene o verso il male? E cosa è bene oggi?
Credo che il tema fondamentale, su cui anche la società civile può e deve fare la sua parte, sia quello del limite: fin dove si può arrivare? Chi decide, alla fine?
Sono un mediterraneo e come tale affascinato sin da bambino da Ulisse e dal suo viaggio. Da adolescente ho dovuto però fare i conti con Dante e, innamorato come tutti del suo inferno, mi sono chiesto per tanto tempo perché anche Ulisse finisce laggiù. Perché il mio eroe è dannato? Sì, conosco la risposta medioevale di Dante, ma non l’ho mai accettata, io appartengo all’era della scienza e non si può avere paura di superare le colonne d’Ercole. Poi un giorno ho letto un saggio di Caterina Resta, insegnante di filosofia, che mi ha illuminato a tal proposito (Atlantici o mediterranei?). Il saggio è un’interessante analisi sul ruolo attuale dell’Europa nello scenario internazionale in relazione proprio alla sua origine e tradizione culturale mediterranea e in particolare rispetto alla “occidentalizzazione” del mondo e alla perdita d’identità dell’Europa stessa dopo la scoperta dell’America.
L’autrice spiega che ci sono due Ulisse: quello mediterraneo e quello che possiamo chiamare atlantico. Quello mediterraneo è quello di Omero, il mio eroe errante e viaggiatore. In lui la voglia di conoscenza è qualcosa di più grande che merita tempo e lunghe soste, ascolto, amore per i luoghi, le persone e persino le sirene. Ogni meta è viaggio, entrata e uscita, dove perdersi perché in effetti non c’è una vera tappa se non il ritorno, la casa, gli affetti, più in là oltre il mare. Errare nel mediterraneo è in qualche modo una conoscenza dei limiti, entro i limiti. È un po’ come il percorso di coaching che trasforma il potenziale in talento, dove il limite che bisogna superare è continuamente se stessi. Il viaggio in questo caso è simbolo universale del bisogno dell’essere umano di elevarsi, migliorare, ascoltarsi ed ascoltare, per tornare a casa più forti di prima. “Il viaggio di Ulisse – dice l’autrice – è mediterraneo perché è comunque dentro un mare che continuamente strappa via ma seduce e ammalia portandoti prima o poi sulla via del ritorno”.
L’ulisse che invece Dante condanna è quello che Caterina Resta chiama atlantico, che si rifa a Cicerone e Seneca, “sapientiae cupido”. Dice l’autrice: “Non è più l’eroe del ritorno in patria, seppure dilazionato da innumerevoli soste, ma è l’eroe della conoscenza, colui che incalza i suoi compagni a non vegetare, ma a «seguir virtude e canoscenza». E per conoscere non si può restare, ma bisogna andare, bisogna salpare, levare le ancore, spingersi oltre i limiti ritenuti ancora invalicabili…”.
Dunque nell’Ulisse “atlantico”, quello che vuole conquistare l’oceano intero c’è un po’ l’anticipo di una visione imperialista che non gode più del viaggio, ma che considera il viaggio solo come distanza da annullare, verso una meta che non conosce soste, ed è l’onnipotenza, il sapere illimitato. Ecco, finalmente ho capito: non è la conoscenza o l’apprendimento in sé la questione, ma il cosa te ne fai, come usi la conoscenza, quali limiti sai riconoscere e quali invece osi rompere. Il limite dell’Ulisse dantesco non è il viaggio ma la voglia di sostituirsi al divino. Qual è dunque il confine del viaggio?
Risposta difficile per homo sapiens, ambigua per Ulisse, non pervenuta da homo digital.
Il coach per definizione non risponde, ma continuerà a fare domande, non dirà mai cosa fare, il suo compito è semplicemente allenare le persone a trovare le proprie risposte. E lo fa alimentando la visione del suo cliente, con la quale si schiera, e sostenendola con empatia. Purché la riconosca come una visione di autorealizzazione per il bene proprio e collettivo.
Sicuramente la AI potrà fornire e consigliare piani per dimagrire e stare in forma, cambiare lavoro, apprendere diverse competenze, del resto il database del web è pieno di teorie e metodi pratici, basta aggregarli in modo ordinato. Da questo punto di vista credo che la AI potrà integrare e completare anche in maniera creativa più potente ogni percorso di coaching. Ma le domande? Le domande cosiddette “potenti”, che sono lo strumento del coach? Vogliamo davvero pescarle da un database? E la “complicità” con la quale le domande provocano e allenano la visione?
Ho provato a chiedere alla AI di chatGPT se poteva farmi da coach. Mi ha risposto così:
“Certamente, posso darti consigli e supporto in vari ambiti come la pianificazione, la motivazione, lo sviluppo personale, la risoluzione dei problemi e molto altro ancora. Tuttavia, è importante tenere presente che non sono in grado di sostituire un vero coach professionista, soprattutto per questioni complesse o delicate. Se hai bisogno di un supporto più approfondito, potrebbe essere utile consultare un coach o un professionista esperto nella specifica area in cui desideri migliorare. Detto ciò, sarò lieto di aiutarti nel modo migliore possibile qui! In che ambito specifico stai cercando supporto?”
Sembra che siamo ancora in tempo e qualunque cosa accadrà l’importante sarà distinguere i ruoli. Siamo tutti coach e coachee innanzi tutto di noi stessi, meglio chiederci in tempo verso quali rotte vogliamo viaggiare e se abbiamo in mente un ritorno, che poi è la Visione. Solo dopo questa prima risposta potremo scegliere a quale coach affidarci: virtuale, umano, o entrambi.
La canzone che vi propongo a questo punto è fin troppo ovvia, la AI mi fa pensare a Francesco De Gregori che ci ricorda che “La storia non si ferma davvero davanti a un portone” e che per fortuna… “La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso”.