È una prassi tanto delicata quanto difficile, utile e mai banale. Tra la fine di dicembre e i primi di gennaio, arriva il momento dei bilanci: c’è una fase in cui, a fronte di quello che abbiamo passato e dell’altro che ci attende, è inevitabile verificare i risultati ottenuti. Anche però andare oltre: considerazioni generali, ipotesi e previsioni, domande cruciali. Qual è il modo migliore di affrontare il futuro?
Certi istanti rendono più acuto il bisogno di fermarsi e riflettere, ritrovando la sincerità smarrita per troppa fretta. Una sosta opportuna, che sembra un vuoto disorientante, ed è ascolto: tornano alla mente pensieri trascurati, emergono preoccupazioni latenti. Ognuno può scegliere il campo che gli aggrada e che gli preme di più. Si può spaziare tra lavoro e famiglia, indagare sugli aspetti sociali, porsi quesiti raffinati sulle dinamiche politiche (durerà il governo Draghi? Chi sarà il prossimo Presidente della Repubblica?), intrattenersi nella dimensione intima, la più coinvolgente.
In ogni ragionamento, oltre ai risultati, si finisce per soppesare il livello motivazionale mantenuto finora e quello restante. È da questo che alla fine dipende il resto, come valutare gli obiettivi, se ricorrere a correttivi. Organizzarsi per il futuro significa spesso rinunciare a qualcosa, valutare l’imprevisto, sperimentare altro.

Nessun campo è in sé, per quanto singolarmente importante, può offrire una visuale completa. L’ordito in cui ci si è mossi è una miriade di eventi, affastellati tra loro, spesso non voluti o sfuggiti al controllo. La tessitura è fatta di fili eterogenei: casuali, programmati, accidentali, studiati. Eventi devastanti ed incontrollabili come il Covid hanno continuato, per il secondo anno di seguito, a rendere precaria la vita, sovvertendo schemi e regole.
Il bisogno di una conclusione fa cercare sulla mappa mentale un punto che possa funzionare da nuovo inizio, qualcosa da cui ricominciare con altra lena. La sintesi realistica è però inevitabilmente un quadro dalle mille sfumature in cui si rischia lo smarrimento, è puzzle di tessere scomposte in cerca di sistemazione e di autore. Contro l’ingenuità di certe aspettative, il tempo è rimasto ancora una volta sospeso tra paura e resistenza, ansia e speranza.
Se riavvolgiamo velocemente il nastro del 2021 per trovare il bandolo, e cogliere l’umore del momento, la nota dominante è una sensazione di inquietudine, nonostante le buone notizie che pure non sono mancate e ci hanno rassicurato. Va accolta e interpretata, perché sia possibile fare un passo avanti.
La statistica sulle vaccinazioni in Italia indica in 48 milioni le persone che hanno fatto almeno la prima dose, 80% della popolazione. Colpiti per primi e pesantemente, abbiamo fatto meglio di altri, in Europa e nel mondo. Nell’andirivieni delle stagioni e dei lockdown, quel numero non è solo parametro statistico; parla di noi, di com’è la nostra natura, di come abbiamo saputo reagire alle disavventure. Mostra cosa ci è successo in questa sospensione pandemica, rappresenta un segnale (persino inaspettato) di fortezza, oggi si dice resilienza, virtù dal sapore civico.

Eppure sono stati tempi complicati in cui era difficile trovare appigli. In altre epoche, le pandemie portavano a rifugiarsi nelle preghiere e nella fede, magari solo in qualche cerimonia di buon auspicio, ora si sono rarefatti i segni visibili di socialità. Maggiore è stato il rischio di smarrirsi e disperdersi, di trasformare la difficoltà in rabbia, e odio contro un nemico immaginario. Non importa quale: il virus, l’industria farmaceutica, i virologi, i giornalisti, chiunque la pensasse diversamente.
Per un lungo tratto dell’anno, i successi continui nello sport, dalla vittoria calcistica degli azzurri agli Europei alle Olimpiadi e paralimpiadi, ci hanno trascinato in un vortice irresistibile di entusiasmo, per le tante imprese compiute. Era ingenua quella gioia, un po’ infantile, ma anche liberatoria, e dal valore simbolico.
Tenere il campo come squadra, pure nel calcio, non era affatto scontato, con la nomea di indisciplinati e incostanti, che impregna la vita collettiva, non solo l’attività sportiva. Mostrare che la disabilità non è necessariamente una porta chiusa sulla vita significava saperla valorizzare in altro modo, ci siamo riusciti in molte occasioni. Vincere in certe gare, etichettate come lontane dalla nostra indole come quelle di velocità, richiedeva volontà e orgoglio, caratteristiche emerse spesso.
L’esaltazione sportiva è stata determinata soprattutto dall’esito di tante storie personali. In momenti cruciali, molti hanno saputo muoversi controvento, mantenendo concentrazione e costanza. Non si sono distratti, hanno raccolto le forze. Non è un affare da poco. Anzi un esempio nella vita. Oltre che fattore decisivo nello sport.

Su tutto, sono stati costanti il sacrificio dei sanitari e l’impegno degli scienziati, a cui si deve il merito di aver mantenuto elevato l’impegno nelle varie ondate della pandemia. Nonostante la fatica, e qualche dileggio da parte di certi no vax ricoverati. Il sistema pubblico (sanità, cura ed assistenza), messo alla prova, non ha vacillato grazie a loro.
Poi, come se ancora non avessimo capito, ci ha colti di sorpresa The Economist che, ribaltando scetticismi e diffidenze, per la verità non sempre infondati, ha definito il nostro come «paese dell’anno». Merito del modo in cui, tutti insieme con l’eccezione di qualche frangia, abbiamo contrastato il Covid e in economia abbiamo ripreso a marciare, come non accadeva da tempo e sembrava inverosimile. Le statistiche segnalano quest’anno l’aumento di produttività del 6%, e anche il recupero dell’occupazione pur parziale rispetto all’abisso del passato.
Eppure il percorso non ha avuto affatto l’andamento lineare che possa appagarci e lasciarci tranquilli. Gli studiosi dei mutamenti sociali hanno messo in guardia, in queste settimane (rapporto Censis 2021), sull’ «onda di irrazionalità» infiltratasi nel tessuto sociale, com’è dimostrato dall’alta percentuale di “negazionisti” d’ogni specie (il Covid non esiste, la terra è piatta, i vaccini sono strumenti dell’oppressione sanitaria, e via di seguito). Una spia del disagio, un segnale della conversione della paura individuale in odio sociale.
Voci sempre più preoccupate, se non bastasse la percezione di genitori e non, sottolineano l’impatto della pandemia sulla collettività. È forte lo stress esercitato sulla condizione psicologica dei giovani, e su quella lavorativa-esistenziale di molti. Quale comunità di persone emergerà dal disastro del Covid e si troverà a raccogliere l’eredità della crisi?

Si estende nel mondo giovanile quel fenomeno denominato efficacemente dal sociologo Mauro Magatti come «sindrome del ritiro dal sociale». In sostanza, si registra una fuga dalla scuola, talvolta anche un abbandono del lavoro che non è motivato da necessità e non ha alternative. La tensione si traduce, prima ancora che nell’indifferenza dell’assenteismo politico, in un percorso a ritroso rispetto allo “stare in società”, dalla scuola, al lavoro, alla vita di relazione.
Per contrastare i sintomi, non rimane per molti che sciogliere il legame sociale, volgere le spalle. Quando non, nei casi estremi, tramutare l’impossibilità di relazione in rabbia cieca e totalizzante. Una tentazione che attraversa le classi sociali e le varie fasce di età e che è dirompente. Le pratiche da remoto, a cominciare dalla Dad, indispensabili in tempi di contagio, rischiano di ostacolare alla lunga i processi di individuazione personale, aumentare la frammentazione del corpo sociale. Creare nuove solitudini. La digitalizzazione – necessaria al funzionamento di tante attività – espone al rischio della rarefazione dei rapporti, quindi della colleganza sociale.
La «società gassosa», di cui ha parlato di recente Papa Francesco, diventa la versione terrificante della condizione di «liquidità» sociale, preconizzata come portato della modernità da un altro sociologo, l’americano Zygmut Bauman. Prendere congedo da sé nella sfera razionale oppure isolarsi in quella emotiva è la conseguenza ultima del disagio, l’effetto più pericoloso della tempesta che stiamo attraversando, e di cui è indispensabile prendere coscienza.
Il senso di inadeguatezza si rivela in atteggiamenti così pervasivi, e genera inquietudine, perché non si riesce proprio a decifrare il mondo divenuto all’improvviso troppo complesso. Si avverte tragicamente di non possedere alcuna chiave di interpretazione. Da troppo tempo sfugge il senso di quanto accade, e non troviamo il modo di uscirne. Eppure, mentre comincia un nuovo anno, non rimane che continuare ad interrogarsi sul momento che attraversiamo, vincendo se possibile la stanchezza. Non c’è alternativa alla fatica di essere sé stessi.