Una cordiale stretta di mano, larghi sorrisi, pose di circostanza e un colloquio blindatissimo. Donald Trump, cravatta rossa e camminata sicura, sfoggia la sua solita spavalderia, mentre Kim Jong Un sembra sentire la tensione del momento; è più impacciato, ma sorride, vestendo l’ormai celebre divisa maoista.
Sono queste le prime immagini dello storico incontro appena iniziato a Singapore tra il presidente degli Stati Uniti e il leader della Corea del Nord. Acerrimi nemici fino a poco tempo fa, e ora, forse, avviati sulla definitiva via del dialogo. Almeno si spera, date le implicazioni epocali del loro inedito faccia a faccia. “We will be tremendously successful” ha affermato con la consueta sicumera il presidente americano poco prima che si chiudessero le porte.
Il colloquio privato è durato appena 45 minuti, poi entrambi si sono diretti verso il successivo meeting con i rispettivi staff, scambiandosi frasi di circostanza da cui è sembrato trasparire un discreto ottimismo.
Sul tavolo ci sono difficilissimi nodi da sciogliere. Due su tutti: la totale dismissione dell’arsenale nucleare, chiesta dagli americani al regime di Pyongyang, e il ritiro delle truppe statunitensi dal confine coreano, voluto come contropartita dal dittatore asiatico.
Al di la degli ostacoli, il momento è davvero unico. Sono passati più di sessant’anni da quel lontano 1953, quando la guerra di Corea, mai formalmente conclusa, segnò la tragica divisione di una penisola unita da millenni di storia comune. Da allora, nessun presidente americano aveva mai incontrato di persona un membro della dinastia dei Kim.
L’impresa è riuscita a un commander in chief su cui nessun osservatore internazionale avrebbe scommesso un penny, al termine di mesi convulsi e ricchi di colpi di scena.
In più di un’occasione, persino a ridosso del summit, i faticosi tentativi di dialogo sembravano essere lì lì per saltare.
I due leader se ne erano dette di tutti i colori, e i loro reciproci e fantasiosi insulti avevano riempito le prime pagine dei maggiori giornali mondiali. Eppure, mentre l’attenzione del mondo era spasmodicamente puntata sui loro eccessi verbali, sotto sotto qualcosa si muoveva.

Come al solito, Donald Trump ha interpretato la parte che ormai lo ha reso celebre: quella del giocatore d’azzardo, in grado di sparigliare le carte sui tavoli internazionali alzando costantemente la posta in gioco e generando una sensazione di momentaneo caos, salvo poi incassare il risultato.
Una strategia rischiosa, certo (soprattutto se si “gioca” con testate nucleari) forse figlia di un istinto innato più che di un disegno coerente, ma che ha innegabilmente smosso le acque, portandolo più lontano dei suoi timidi predecessori.
Dall’altra parte, Kim Jong Un sembra essere ben lontano dal pazzo furioso dipinto dai media in questi anni. Sappiamo pochissimo del suo carattere, a parte la ferocia dimostrata quando si trattava di consolidare il potere facendo fuori oppositori e parenti scomodi.
Da tempo, però, era chiaro come il dittatore asiatico perseguisse un chiaro obiettivo: legittimarsi sulla scena internazionale. Per raggiungerlo, anche lui si è mosso sul filo del rasoio, spingendo il mondo sull’orlo dell’abisso con pericolosi test nucleari e dichiarazioni incendiarie.
Riusciranno i due a combinare qualcosa di buono? È troppo presto per abbozzare una risposta, ma è certo che data la natura imprevedibile dei personaggi in questione, a giocare un ruolo importante non saranno solo i dossier, ma il rapporto personale che da oggi in avanti si instaurerà tra loro.
In questa fase, però, gli interessi di Trump e Kim potrebbero fatalmente convergere: entrambi hanno voglia di riportare una vittoria diplomatica, da sfruttare sia a livello interno sia a livello internazionale.
Se il vanitoso Donald punta a surclassare chi lo ha preceduto, magari guadagnandosi un Nobel per la pace, l’ambizioso dittatore vuole garantirsi la sopravvivenza e un posto d’onore nella storia del suo paese, ponendo fine al conflitto iniziato dal nonno Kim Il Sung.
Il traguardo finale, a detta di molti osservatori, sarebbe infatti un trattato di pace tra USA e Nord Corea in grado di soppiantare l’ormai datato armistizio del ’53.
Ma Trump e Kim non sono i soli protagonisti della complessa trama diplomatica alla quale stiamo assistendo. Mentre loro si preparano a giocare una partita a poker dagli esiti incerti, aleggia silenziosa su Singapore la grande ombra del dragone cinese, che ha giocato un ruolo fondamentale nell’evoluzione della crisi nordcoreana.
La Cina è il convitato di pietra del summit di oggi e dei successivi probabili incontri bilaterali tra Stati Uniti e Nord Corea. Per Pechino, l’alleato asiatico è una pedina strategica fondamentale su cui non intende perdere il controllo. Al contempo, i cinesi potrebbero guardare con favore a una denuclearizzazione della penisola coreana.
A complicare il quadro ci sono inoltre gli interessi particolari delle altre potenze regionali in gioco, Giappone e Corea del Sud in primis.
Insomma, a partire da oggi entriamo in terra incognita, avventurandoci in un campo disseminato di mine. Potrebbe bastare un passo falso e tutto salterebbe in un attimo, vanificando il pezzo di strada percorso fino a ora.
Abbiamo davanti una storia ancora tutta da scrivere.
Aggiornamento
Dopo le discussioni al tavolo alla presenza dei propri staff, entrambi i leader hanno firmato una “congiunta dichiarazione di amicizia”. Poco dopo, Trump ha tenuto una conferenza stampa in cui ha ribadito la volontà delle due nazioni di giungere a un trattato di pace che ponga formalmente fine alla guerra di Corea.
Di seguito i relativi video.